E’ curioso, certe volte, il caso. In piena settimana del Salone del Mobile, Milano ospita la messa in scena de “L’invenzione della solitudine”, pièce nella quale l’arredo è ridotto all’osso, intralcio sul palcoscenico, fatto di inutili suppellettili in una casa in vendita e da svuotare, dalle linee anonime e dozzinali.
Non si può dire lo stesso di Battiston, dominatore assoluto dell’opera che prende il nome dall’omonimo romanzo di Paul Auster. Attore ma non solo, interprete unico della rappresentazione articolata e raffinata di uno dei temi più antichi ed esplorati, non solo in teatro: quello del rapporto tra padri e figli, perennemente dominato da incomprensioni e desideri agli antipodi, difficoltà comunicative e silenzi. Battiston si fa portavoce di una realtà molto variegata e complessa, dando voce a personaggi diversi, che ricoprono ruoli differenti a seconda delle varie stagioni della vita, con tutte le paure e le insicurezze tipiche di ciascuna età. Il tutto affidandosi alla sola voce e interpretazione, giocando con alcune espressioni del viso e utilizzando, di tanto in tanto, brevi pause necessarie anche a traghettare lo spettatore verso una nuova scena, verso la rievocazione di un ennesimo episodio ripescato dal passato.
Tuttavia, in questa analisi familiare, meritano una menzione speciale anche gli elementi scenografici, a cominciare dall’enorme specchio quadrato, un pannello alle spalle dell’attore, che riempie quasi tutto lo sfondo, quasi coprotagonista dell’opera. Specchio nel quale riflettersi, non solo visivamente ma anche in senso figurato, quasi la sua presenza servisse a ricordare che quello che i genitori sono stati per noi, saremo noi domani per i nostri figli. Sempre in termini scenografici, d’impatto è la scelta di creare una parete fatta di cravatte, uno degli accessori preferiti dal padre del protagonista, che ad un certo punto cadono quasi tutte contemporaneamente al suolo, facendosi espressione di una caducità quasi inevitabile presente nelle nostre vite, alla quale sembrerebbe impossibile sfuggire.
A completare, il gioco di luci e l’ausilio della melodia di un pianoforte fuoricampo restituiscono l’idea di una malinconica assenza, alternata a momenti di rabbia e qualche battuta sarcastica, involontariamente ironica forse. Tutti elementi di una ricostruzione che sembrerebbe volere suggerire una sorta di morale finale: quello che è stato d’ora in poi non sarà più, ma il ricordo quello no, quello è bene averlo.