Nella lettera del 17 marzo 1753, Metastasio annunciava a Farinelli il completamento dell’Isola disabitata con queste parole: «La maggior mia consolazione non è quella d’aver finito, ma d’essermi riuscita (a proporzione delle mie forze) la meno imperfetta di tutte le opere mie. Voi vedrete ristretto in un atto solo tutti i moti, tutti gl’incontri e tutte le passioni che riempirebbero abbondantemente la misura di un lungo dramma. V’è curiosità di soggetto, novità di caratteri, si piange senza entrar nel teatro, si ride senza dar nel buffone: insomma (se l’amor proprio non mi accieca affatto) il componimento è tale che, considerato lo stato della mia testa, è superiore a quello ch’io potevo promettermi da me stesso». La breve azione teatrale, commissionata dalla corte di Madrid e musicata per la prima volta da Giuseppe Bonno, è una sorta di meditazione drammatizzata sull’amore. L’attesa e lo sdegno, la speranza e la scoperta, l’ardore e il pudore, il perdono e l’abbandono vengono passati in rassegna attraverso il dialogo di quattro personaggi, sottratti al flusso del tempo ordinario e collocati su di un’isola senza nome, dove i sentimenti si manifestano nella loro quintessenza. La distillazione tocca livelli di tale purezza da sfociare nell’astrazione. In ciò sta il fascino e il limite del libretto: più che vissute, le emozioni vi appaiono contemplate; anziché muovere e commuovere, i versi sembrano voler mostrare e dimostrare. Molti maestri intoneranno il testo metastasiano nei decenni successivi. Tra questi, Niccolò Jommelli, che lo utilizza nel 1761 per la corte di Carlo Eugenio del Würrtemberg e ne ricava una partitura di raffinatezza elegiaca, caratterizzata da soluzioni formali originali e da un sapiente dosaggio di tinte.
L’isola disabitata jommelliana viene messa in scena in questi giorni al teatrino di corte del palazzo reale di Napoli nell’ambito della stagione operistica del San Carlo per celebrare - in ritardo - il terzo centenario della nascita dell’illustre compositore, che ebbe i natali ad Aversa nel 1714 e morì a Napoli nel 1774. La scelta risulta invero modesta: non solo condizionata dalla necessità di contenere i costi, ma anche scarsamente significativa. Tra le tante creazioni di Jommelli che attendono di essere riscoperte e valorizzate, si è preferito ripiegare su un lavoro già eseguito all’Olimpico di Roma nel 1998 grazie agli sforzi congiunti dell’Accademia Filarmonica e del Teatro dell’Opera (sul podio, allora e oggi, uno specialista come Rinaldo Alessandrini). Non così è accaduto al Rokokotheater di Schwetzingen, che alla fine del 2014 ha allestito l’impegnativo Fetonte, o alla Staatsoper di Stoccarda, che quest’anno propone, in due diversi cicli di rappresentazioni, il Vologeso (ribattezzato per l’occasione Berenice regina di Armenia); perfino la città di Aversa ha osato di più quando il 19 dicembre 2014 ha offerto una selezione dal Trionfo di Clelia in forma scenica al Teatro Cimarosa.
Purtroppo lo spettacolo ospitato al teatrino di corte non è soltanto rinunciatario: è anche piuttosto noioso. La regia di Mariano Bauduin parte da un’intuizione interessante: avvolgere l’azione in una dimensione onirica e arricchire il senso della parola cantata per mezzo di visioni intese come proiezioni del turbamento, della speranza e del desiderio. Purtroppo, però, nella realizzazione questo spunto viene inutilmente complicato dall’introduzione dal personaggio recitante di Matilde Serao (interpretata da Antonella Morea), la quale, non avendo nulla di preciso da fare, fa un po’ di tutto. Declama l’antefatto su un vorticoso arpeggiare del cembalo, mima con la penna d’oca l’andamento della sinfonia iniziale, si siede e si rialza continuamente dalla scrivania posizionata davanti alla buca d’orchestra, riceve visite dagli attori del dramma oppure li raggiunge sul palcoscenico. Ma soprattutto, da brava scrittrice, usa la sua macchina da scrivere, promossa così a strumento (s)concertante in alcuni passi di recitativo: e non si sa se pensare a un omaggio a Jerry Lewis (Who’s minding the store?) o a un esperimento ‘rumorista’ fuori tempo massimo. In nome di una malintesa ‘napoletanità’, la creazione settecentesca conosce dunque una superfetazione che non la rende né più intellegibile, né più accattivante, né più ‘attuale’. L’effetto finale è confuso, sovraccarico e un po’ kitsch.
La creazione di Jommelli, già di suo priva di grandi contrasti e di punte drammatiche, scorre insipida. Non giovano a ravvivarla né la scenografia di Dario Gessati, che ricorda un cimitero ottocentesco con angeli piangenti e cipressi pietrificati come stalagmiti, né i costumi di Marianna Carbone, indecisa tra trovarobato coloniale e mito del buon selvaggio, né la presenza in scena di due spiriti (i giovanissimi Armando Aragione e Tiziana Cavaliere).
Sebbene calati in questa cornice pretenziosa e inefficace, gli interpreti vocali offrono una prova di tutto rispetto. Raffaella Milanesi sottolinea con bravura le inflessioni dolenti di Costanza, cui spetta una splendida aria in tonalità minore. Più fresca e più chiara la vocalità di Silvia, interpretata in maniera convincente e spigliata da Silvia Frigato, che incarna l'ingenua semplicità della verginità. Alessandro Scotto di Luzio presta il suo bel timbro al personaggio di Enrico, mentre Davide Luciano disimpegna con sicurezza il ruolo di Gernando. La direzione di Alessandrini appare incline a una certa dilatazione dei tempi; se è vero che il compositore assegna alla maggior parte dei pezzi chiusi un andamento moderato, la resa del recitativo risulta gravata da troppi indugi e stagnazioni eccessive. L’impressione complessiva è che, con quest’Isola disabitata, il San Carlo abbia celebrato la ricorrenza jommelliana con lo stesso entusiasmo con il quale si ottempera a un dovere burocratico. Intrapreso senza coraggio, senza convinzione e senza grande impegno, l’allestimento resta perciò un’occasione in gran parte sprecata.