Lirica
L'ITALIANA IN ALGERI

Bologna, teatro Comunale, “L’…

Bologna, teatro Comunale, “L’…
Bologna, teatro Comunale, “L’Italiana in Algeri” di Gioachino Rossini LA SCATENATA INVENTIVA DI ROSSINI E DARIO FO Rossini occupa un posto particolare, come una meteora, nel contesto del teatro musicale europeo fra il primo e il secondo decennio dell’Ottocento, un momento non facile, tormentato dalle istanze innovatrici dei romantici, mentre ancora fortissime e determinanti a livello di gusto apparivano le tendenze classicheggianti di fine Settecento. L’Italiana in Algeri si serve di uno spiritoso libretto di Angelo Anelli, messo in musica per la prima volta da Luigi Mosca (debutto, con poco successo, alla Scala nell’autunno del 1808), a cui Rossini accenna e prende spunto con la consueta raffinata abilità all’ammiccamento sonoro, prima di scatenare una inventiva che raggiunge vette d’ideazione straordinarie. Come vette d’ideazione teatrale straordinarie raggiunge la regia di Dario Fo che, perfettamente ed efficacemente, traduce in un vortice giocoso di immagini quello che Stendhal definì con il termine di “follia organizzata”. Follia sì, ma condotta e calcolata con l'intelligenza e la cifra inventiva dell’intuizione del genio, in Rossini e in Dario Fo, in un’opera euforica ed eufonica, sprizzante gioia da ogni nota e da ogni immagine sul palcoscenico. Infatti nella produzione del Rof e del Comunale di Bologna la meravigliosa frenesia musicale fa il paio ad un allestimento originalissimo ed irripetibile pensato integralmente dal premio Nobel (autore di regia, scene e costumi). Il gusto esotico per l’argomento “turchesco”, il rapporto dialettico ed ironico tra due ben distinte civiltà, il classico triangolo settecentesco all’italiana con due innamorati più il cicisbeo contrapposto a quello orientale del sultano col serraglio, la componente squisitamente erotico-sentimentale e quella patriottica sono tutti elementi essenziali, ma nessuno predominante, nell’allestimento di Fo. Il regista non si discosta dallo schema narrativo del libretto, ma il plot gli fornisce il pretesto tecnico-testuale per creare immagini e situazioni capaci di scatenare la sua prorompente ed originale inventiva, una inventiva che non conosce sosta durante tutta la durata e che riesce a concretare con misura, ironia e sentimento, un capolavoro. All’inizio il sipario, che richiama vagamente lo stile immaginifico del rimpianto Lele Luzzati, descrive una città sull’acqua. Sul pizzicato degli archi domina il mormorio del pubblico fastidiosamente rumoroso (teatro strapieno), poi subito rapito dalla distesa degli archi introdotti dall’oboe solitario. Su una distesa di onde (“l’incostanza del mar” vistosamente di stoffa, le onde come nella commedia dell’arte, pezzi di stoffa agitati a mano dalle quinte) saltano pesci e volano gabbiani, una barca spinta da lunghe pertiche poi trascinata indietro dalla forza del mare: tutto dichiaratamente finto, tutto visibilmente teatrale, tutto incredibilmente buffo. Nastri azzurri pendono dal soffitto, ondine sgambettano qua e là, tra i guizzi e le carambole di giovani con azzurri pirateschi fazzoletti in testa. All’improvviso, d’incanto, tutto sparisce, i gabbiani volteggiano in un interno vagamente moresco, con tre finestre in fondo che si aprono su un infinito cielo azzurro. E ha inizio una girandola incredibile di iperboliche invenzioni visive: macchine volanti, carri e marchingegni spostati a mano da uno stuolo di bravissimi tecnici, manichini e pupazzi, pali che da strumento di tortura diventano gags comiche e poi razzi che partono roboantemente verso il cielo, costumi mirabolanti, come quegli splendidi animali (leone, giraffa, cammello, scimmie, zebra, struzzo) che nel corso del primo atto sono parte inscindibile del narrato, con effetti esilaranti. Ricordando le più folli comiche del cinema muto. Non solo mero divertimento, ma grande teatro, come nell’aria bellissima di Isabella “Per lui che adoro”, la efficace scena degli specchi coi protagonisti che osservano nascosti in vasi di verdura, mentre gli alberi si eccitano vistosamente. Oppure nel secondo atto, la scena patriottica intesa come un comizio dell'Italia, con squadra di calcio e corsa ciclistica (Taddeo rinfresca i ciclisti tirando loro un secchio d’acqua, quelli cadono a terra e arriva una barella che però carica.. una bicicletta). Fino al finale, quando la barca se ne va con Isabella e gli italiani, seguita da una specie di “barca di Noè”. Buona la prova del coro (preparato da Paolo Vero) e del cast. La vocalità di Marianna Pizzolato gravita nelle zone medio-basse ed è appropriata per Isabella: la cantante è attorialmente capace di rendere un personaggio caratterialmente sfaccettato e vocalmente infarcito di imbellimenti e fiorettature, senza tralasciare i momenti di introspezione ed abbandono patetico. La Pizzolato fraseggia morbidamente, esegue ornamentazioni, impiega colorature, ammicca con lo sguardo e i gesti, si muove con padronanza e sicurezza (mantenendo signorilità anche nelle scene più direttamente allusive, “tutti la bramano / tutti la chiedono / di vaga femmina / felicità”), insomma fornisce una prestazione eccellente, che relega a incolori presenze di routine Elizaveta Martirosyan e Silvia Mazzoni, rispettivamente Elvira e Zulma, entrambe tenui ed acerbe. Simone Orfila è un Mustafà dalla voce piena e forte, ma anche giocoso ed elegnate, non macchiettistico, che ha una perfetta dizione e un fraseggio caldo, aiutato sulla scena da un piacevole aspetto fisico e da quel grande turbante che lo impone allo sguardo. Unico neo, a volere essere pignoli, il registro acuto (ad esempio in “Pappataci” si ha un'alternanza timbrica non piacevole). Esilarante il Taddeo di Bruno De Simone, completamente a suo agio nel ruolo del buffo. L’impervia vocalità di Lindoro costituisce un ostacolo per Maxim Mironov, privo di squillo, debole nell’eseguire le stratosferiche ornamentazioni della parte, incolore nel complesso. Era stata annunciata l’indisposizione di Mario Cassi (Haly), ma è sembrato in buona forma, sia vocale che fisica. Il giovanissimo (non ancora trentenne) Michele Mariotti ha condotto con gesto preciso l’orchestra del Comunale presentando un Oriente di fantasia ma ricco di sottili seduzioni, senza tralasciare limpidezze e velocità. Da segnalare la bravura del tecnici del comunale e la strepitosa abilità dei mimi in ruoli assolutamente non marginali nell’economia della rappresentazione. Come gli animali, oppure i saltellanti eunuchi, giocherelloni come allegri pupazzi dei fumetti. Insomma uno spettacolo allegro, fantasioso, spensierato, divertente, euforico. Da non perdere e da rivedere più e più volte. Con l’incanto, la meraviglia e il divertimento della prima volta. FRANCESCO RAPACCIONI Visto a Bologna, teatro Comunale, il 21 aprile 2007
Visto il
al Comunale - Sala Bibiena di Bologna (BO)