Guardando questo Zoo di vetro con la regia di Arturo Cirillo si ha una semplice, chiara, netta sensazione il testo esplode, vivendo di vita propria.
Guardando questo Zoo di vetro con la regia di Arturo Cirillo si ha una semplice sensazione: il testo di Tennessee Williams è talmente potente che, pur recitato nella massima superficialità, esplode vivendo di vita propria. La regia confusa sulla direzione degli attori, sullo spazio scenico e sui temi portanti dell’opera non è riuscita a sovrastare la potenza del testo, che arriva per vie traverse agli spettatori.
Uno spazio diviso
Il palcoscenico è diviso in due parti: nella zona antistante avviene la scena; nel retro, lasciato nel buio secondo il disegno di luci, rimangono ad attendere i personaggi fuori scena. Si fatica a leggere il codice spaziale dato dal regista, anche nella zona della scena, dove realistico e irrealistico si confondono senza che questo confondersi appaia significativo. Il narratore da testo vuole che ogni dialogo sia una rievocazione di fatti già accaduti e depositati nella sua memoria, ma né lo spazio, né il linguaggio sono coerenti con l'espediente narrativo richiesto dall’autore stesso.
Annullamento dell’inquietudine
La regia riesce a far vivere solamente alcuni momenti dell’opera, della quale non arriva però la profonda inquietudine di cui sono intrise le pagine del testo, fortemente autobiografico soprattutto per certi elementi. Ad esempio l’autore si è ispirato, per la figura della giovane Laura, alla sua vera sorella, Rose, che per gravi problemi psicologici aveva subito un intervento di lobotomia. Ciò avviene anche per una superficialità nella recitazione, da cui si salva solo in certi momenti Rosario Lisma e in toto la bravissima Monica Piseddu. Quest’ultima, da sola, è l’unico elemento davvero allarmante per il pubblico: L'unico elemento che fa sì che la pièce non sia solo una commedia d'amore finita male.