Lirica
LOHENGRIN

Lohengrin, opera romantica in…

Lohengrin, opera romantica in…
Lohengrin, opera romantica in tre atti, arrivò in un momento cruciale sia per il teatro dell’opera, che nella produzione wagneriana. Innanzitutto, l’opera subì limitatissime revisioni negli anni a venire, simbolo di nuova, particolare accuratezza compositiva di Wagner, derivante peraltro da un lungo e complesso lavoro. Ultimo lavoro definibile come opera (e non vero e proprio dramma musicale), vede un libretto che, seppur con innesti di personaggi ed eventi inventati, va a pescare nelle varie fonti di Gerin in Loreno (appunto “loheren garin” in francese antico). La composizione musicale (1846-1848) vide in essere una peculiarità frequente di Wagner, che iniziò a scrivere dal III atto, andando a ritroso. Leggenda, fiaba, magia, dramma storico, mito: elementi paradossali uniti, a fare da collante alla tragedia del cavaliere il cui destino è pre-segnato dal volere divino. Lohengrin opera sul finire e quasi dramma musicale dunque, proprio grazie alla “prosa musicale” che vi si instaura, strabordante volutamente dalla quadratura e dalla forma strofica. Un’opera che, come si disse, “soggiogò Hitler”, che la vide in età adolescenziale a Linz. La prima rappresentazione assoluta, avvenne nel 1850, dopo vari problemi e pregrinazioni e fu merito dell’amico Franz Liszt, che accolse l’opera nel teatro di Weimar, in cui era direttore musicale. L’accoglienza iniziale del pubblico fu abbastanza contenuta, per poi sbocciare negli anni a venire, fino ai giorni oggi, in cui “Lohengrin” è considerata l’opera wagneriana più rappresentata e amata al mondo. Con l’Italia “Lohengrin” ha poi un rapporto privilegiato - primissima opera wagneriana rappresentata in Italia, nel 1871 a Bologna – ma anche un ruolo basilare, e questo per la querelle Wagner-Verdi che ne seguì, con il proliferare dei fautori del tedesco a scapito dell’italiano. C’è da dire che il debutto alla Scala, con Franco Faccio come direttore d’orchestra, non fu dei migliori: nel 1873 fu stroncato sia da critica che da pubblico, rimanendo in scena solo per 7 rappresentazioni. Celebre fu l’allestimento del 1983, con la regia di Strehler e diretto da Claudio Abbado, peraltro ultimo allestimento dell’opera prima di questo odierno di Nikolaus Lehnhoff regista e Daniele Gatti in direzione musicale, con una produzione italo-franco-tedesca. Gatti, applaudito a più riprese e chiamato a gran voce, è perno e trascinatore di un allestimento di livello, estremamente fluido e con minime sbavature, non dipendenti dalla sua volontà. Ne mantiene i tratti peculiari, con quella musica molto fisica, dagli incompatibili e continui contrasti, tanto descrittiva nel I atto, quanto irrompente e ruvida nel II, simbolo del candido protagonista in contrasto con la sfrontata e complessa storia umana. La dicotomia buoni-cattivi è sempre presente, inviolata. E l’arrivo di Lohengrin, con quella marcia incantata, in crescendo, e il divieto, ripetuto e rimarcato anche dagli archi (la grandezza Wagneriana!), tutto è incasellato a dovere, con un’orchestra e un coro in stato di grazia, coinvolti nell’azione come vuole la tradizione, ma con una marcia in più. Anche il II atto rispetta i canoni, con una musica più psicologica e con Ortrud connotata negativamente da un registro grave e mutevole. Ortrud ed Elsa poi vivono in un binomio invertito, soprattutto nel duetto finale del II atto; allo slancio positivo di Elsa, risponde il perenne registro grave di Ortrud. E il binomio impossibile Elsa-Lohengrin si palesa instancabile. Nel III Atto (il primo a essere composto, non dimentichiamolo), si perde il lato psicologico e si affonda il temi più lucidi e logici, con Lohengrin dal canto distaccato e poco impetuoso, conseguenza della sua estraneità ai sentimenti umani dell’amore. Così, nel suo incedere perfetto e ultraterreno, Lohengrin perde Elsa, consapevole delle differenze e dubbiosa sul futuro. Turbinio dell’orchestra nel rammentare il divieto e poi l’improvviso silenzio, ossia il baratro. L’addio finale di Lohengrin è un indugio musicale, in cui il cavalier divino per la prima volta s’accascia mentalmente e trema. Le voci. Buona prova per Ortrud (Linda Watson); non entusiasmano né Heinrich (Hans Peter Koenig), né Lohengrin (Klaus Florian Vogt). Meglio Solveig Kringelborn, nei panni di Elsa, bella e sognante, spesso addormentata in proscenio, quasi ibrida, quasi da lettino da strizzacervelli: non è mai sopra le righe, ma questo, in fondo, non è nemmeno un bene. Il Telramund di Jurgen Linn è curato, sebbene con qualche sbavatura. E se è vero che l’occhio vuole la sua parte, le scene (Stephan Braunfels) di questo Lohengrin sono fatte con criterio: maestose senza essere sfarzose, immense nella loro lineare semplicità. Si rifanno in qualche modo ai dettami di Adolphe Appia, che suggeriva una semplificazione decorativa a favore della preminenza della musica, certamente molto diverse da quanto portò in scena Strehler nel 1983. Strutture a gradoni, anfiteatro e gradinata, controllate dalle mascherine scaligere. Costumi rimandati e con più di un punto di domanda, francamente non legati al resto, dalle reminescenze (e nemmeno troppo!) molto anni ’30 e ’40. Milano, Teatro alla Scala, 28 gennaio 2007
Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)