Fu il Lohengrin la prima opera in assoluto di Wagner rappresentata in Italia, recapitando il Nuovo Verbo sulle solatie sponde del Mediterraneo. Avvenne giusto qui, al Teatro Comunale di Bologna, da allora tempio wagneriano per eccellenza.
Doveva tornarvi in scena un anno fa, onde celebrare il secolo e mezzo da quel 1 novembre 1871, ma ci si è messo di mezzo il Covid. Facendo di necessità virtù, eccoci a festeggiare i 151 anni. Sapendo, fra l'altro, che l'antica sala del Bibiena resterà chiusa quattro anni per lavori, per le prossime stagioni si dovrà ripiegare altrove. Dal gennaio prossimo, al Teatro EuropAuditorium della Fiera di Bologna.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Dal 1871 ad oggi, 14 riprese
Da ultimo, Lohengrin venne data a Bologna nel 2002, nelle mani allora di Daniele Gatti e Daniele Abbado. Edizione rimasta memorabile. Questa volta regia, scene, costumi e luci sono affidate a Luigi De Angelis, testa pensante della 'bottega d'arte' ravennate Fanny & Alexander. Sennonché, quando un regista sente il bisogno di proporre lunghe note di regia (cinque pagine), e di precisare il suo pensiero in un'apposita intervista (altre sei pagine nel libretto di sala) qualcosa non quadra.
Lo spettacolo, in fondo, dovrebbe parlare da sé; ma quanto ci viene proposto, francamente, ha poco eloquio. In compenso,si intravede molta routine, molto dejà vu, poiché prende un po' di qua, un po' di là. Insomma, scarseggia di originalità e di attrattiva; e le poche nuove idee messe in campo da De Angelis, non sempre funzionano a dovere.
Grandi vuoti in scena
A cominciare dalla pleonastica, saltuaria presenza in sala di un Wagner muto e mimato – è reso da Andrea Argentieri – che cerca ispirazione e dirige svagato le prove. E quindi con il vuoto assoluto, salvo qualche inutile riempitivo, d'una scatola scenica dilatata all'inverosimile; con le masse corali eternamente immobili; con la proiezioni sullo sfondo delle solite immagini naturalistiche; con la fuorviante memoria, nella scena del processo, del Tribunale di Norimberga.
Già visto mille volte l'impiego di divise militari odierne: Telramund e Ortrud – chissà perché - in alta uniforme del nostro esercito. Finendo nel ridicolo quando vediamo Lohengrin e Elsa abbigliati con candidi abiti illuminati da led; o quando, invece di stendersi sul talamo nuziale, giocano scalzi a nascondino come due bambini, sprecando così il primo ed unico momento d'intimità. Poco male, in fondo: come annotato ironicamente da Beniamino Dal Fabbro, per tutta l'opera l'oboe amoreggia con la fanciulla assai più di quanto faccia l'incognito suo paladino.
Ottime prove per direttore, orchestra e coro
L'Orchestra del Comunale – precisa, infervorata, luminosa negli ottoni - vede salire sul podio Asher Fisch, a tenerne saldamente le briglie. Da quando è ospite del Comunale, la prova sua migliore. Imposta sonorità nitide, tempi scattanti, trasparenza nell'ordito strumentale, meticolosa attenzione ai particolari.
Epicità di racconto e grande respiro sinfonico sì, ma nessuna magniloquenza. Semmai, una certa inclinazione a porre l'accento sulle pagine più visionarie ed irreali della partitura. Le file del Coro del Comunale sono rinforzate da quelle del Teatro Nazionale ucraino “T. Shevchenko”: insieme fanno sfoggio di delicatezza e rigore insieme.
Alemannia uber alles
Tipico esemplare di heldentenor nordico, il monacense Vincent Wolfsteiner porge un Lohengrin dallo slancio che vorrebbe essere imperioso ed eroico, sostenuto da timbro chiaro e corde vocali di un certo effetto; ma dato che il fraseggio è poco fantasioso, l'andamento povero di sfumature, e le impennate melodiche di corto respiro, il personaggio risulta privo del dovuto spessore. Al punto da essere un tantino 'piacione', indefinito e manchevole sia negli a solo, sia nel duetto d'amore con Elsa.
Una figura femminile, quest'ultima, delineata invece con bella completezza psicologica dal soprano tedesco Martina Welschenbach che, pur non giovandosi d'una voce esaltante – un po' secca e metallica, anzi; migliore nel registro medio che nell'acuto – si mostra interprete giudiziosa, perfettamente in grado di renderne al meglio i femminili tremori, i turbamenti, l'angelicata essenza; ma anche l'intima solitudine.
Di nuovo Telramund, dopo vent'anni
Lucio Gallo, presente nelle recite bolognesi di Lohengrin di vent'anni fa, torna in lizza e scolpisce un Telramund nevrotico e luciferino, che nella grande scena del secondo atto imposta un gradiente drammatico – dallo sbigottimento iniziale alla bramosia finale, accecata dall'ambizione – di massimo effetto teatrale.
L'indomabile, demoniaca e maligna Ortrud sta nelle mani Ricarda Merbeth: il soprano sassone procede con veemenza un po' troppo apocalittica, con una linea vocale dura e uniforme, e suoni non sempre ortodossi. Nobile di carattere e musicalmente autorevole l'Heinrich di Albert Dohmen, irreprensibile l'Araldo di Lukas Zeman.