Milano, teatro alla Scala, “Lohengrin” di Richard Wagner
LOHENGRIN SENZA CIGNO, ELSA DALLO PSICANALISTA
Italo Calvino diceva che i classici sono quelli che non smettono mai di dirci quello che hanno da dire. E così è. Lohengrin è un'opera decisamente romantica per le fonti a cui attinge e per le tematiche espresse. Ma chi dice che non funziona una sua lettura in chiave psicanalitica anziché romantica? Funziona, eccome. Vedere per credere: alla Scala, il bello ed emozionante allestimento di Nikolaus Lehnhoff, coprodotto con il Festspielhaus di Baden-Baden e l'Opéra National di Lione, scene di Stephan Braunfels, costumi di Bettina Walter, luci di Duane Schuler, movimenti coreografici di Dani Sayers.
A volte, in certe determinate situazioni della vita, sogni e desideri sono talmente forti che li si confonde con la realtà. Lohengrin può essere la proiezione dei desideri di Elsa. Tale input va attualizzato, quanto meno al secondo Novecento. Ma un classico non solo “sopporta” l'attualizzazione, anzi la “chiede”, proprio per non smettere di dire quello che ha da dire, come Calvino aveva intuito.
Elsa immagina, sogna, proietta. O forse, più semplicemente, desidera fortemente. Come ognuno di noi. Spesso Elsa è seduta su una sedia, simbolo del lettino freudiano; a volte si addormenta; sempre torna alla sedia, intorno alla quale è imperniato il suo muoversi, il suo esistere. Primo e terzo atto sono ambientati in una sorta di teatro antico (le comparse hanno abiti non dissimili dalle divise delle mascherine della Scala), con una pedana centrale rotonda dove si svolge la scena, che lo rende al tempo stesso anche teatro anatomico, dove gli spettatori assistono alla vivisezione. Qui di pensieri, desideri, sogni. Durante l'overture Elsa s'avanza lentissimamente dal fondo, illuminata da dietro, efficacissima trovata (seppure non nuova), come in un sogno. Elsa mantiene sempre un'espressione estraniata, Lohengrin invece ha la divina indifferenza di chi sa come andranno le cose, e, ovviamente, non può arrivare su un cigno, ma con una linea luminosa, una lama di luce che squarcia il buio orizzonte. Sempre un simbolo, come Wagner voleva. Ma un simbolo dell'oggi.
Superlativi i movimenti delle masse corali inventati dal regista, soprattutto nel secondo atto, su una struttura quasi piramidale di scale di una bellezza assoluta. Centrati i movimenti e la gestualità dei protagonisti e dei comprimari. Fondamentale l'apporto delle luci, bianche, azzurrate, terrene e ultraterrene, che accompagnano intuizioni registiche subito riconoscibili: Ortrud “nera” che necessariamente si scontra con Elsa “bianca” fino a quando non l'avrà “irretita” ed Elsa si ritrova inviluppata con il mantello di Ortrud senza possibilità di fuga, neppure nei suoi sogni, neppure sulla sedia, poiché il mantello, come una ragnatela, la avvolge anche lì, Elsa e la sedia in un tutt'uno inseparabile; Lohengrin immagine di Wagner, che nella prima parte del terzo atto compone al pianoforte nell'intimità della camera nuziale; Gottfried è un bambino nudo e indifeso, l'anima dell'uomo, l'archetipo dell'esistenza, il fine dell'azione: tornare a ristabilire quell'ordine che c'è nelle cose. Splendido tutto il secondo atto, Elsa in abito di tulle bianco a corolla, simile alla dolce e triste Marilyn Monroe di certe foto celeberrime, un angelo di fragilità, una predestinata, un'icona contemporanea.
Di buon livello il cast. Klaus Florian Vogt è un Lohengrin di bella presenza e vocalmente dotato, seppure un poco statico ed inespressivo; Solveig Kringelborn è una convincente Elsa, ingenua e pura di cuore, che alterna momenti di estasi ad altri di profondo dolore, attorialmente capace di rendere i vari momenti della sua anima tormentata; Linda Watson è una perfida Ortrud con bellissima voce dalle necessarie venature scure, capace di uno sguardo raggelante e di una gestualità melliflua e ingannevole; con loro Ronnie Johansen (il Re), Jurgen Linn (Telramund) ed Ernesto Panariello (l'araldo).
Daniele Gatti è stato il trionfatore della serata: con gesto imperioso e sicuro ha diretto l'Orchestra e il Coro scaligeri; Gatti non solo dirige, ma mima, canta, suggerisce, incita, rallenta, è un piacere vederlo dirigere. A partire dal preludio, con quelle arcate lunghissime, e continuando per tutta l'opera, Gatti, adeguandosi al taglio registico, evidenzia le differenze della partitura, evaporando il sovrannaturale e scurendo il terreno, con un risultato eccezionale. Ne esce un senso di predestinazione, di già stabilito, di ordine necessario in tutte le cose.
Wagner non viene eseguito abbastanza in Italia, forse per l'ostacolo della lingua, forse per la distanza culturale, forse per quella teogonia quasi sconosciuta al centro delle storie. Ascoltando questo Wagner si ha il rimpianto di non ascoltarlo dal vivo più spesso.
Visto a Milano, teatro alla Scala, il 31 gennaio 2007
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)