Il suono di una goccia che, inesorabile, cade al suolo, ha un che di fastidioso, tanto da diventare inquietante se protratto a lungo. È una piccola cosa in fondo, che contribuisce però a costruire l’atmosfera, a restituire all’immaginazione dello spettatore l’idea di una prigione che, lentamente, ti divora dentro, riducendoti al silenzio. Si apre con questa immagine il racconto di Adalgisa Conti, la ventiseienne di Anghiari che, nel 1914, viene rinchiusa nel manicomio di Arezzo, senza opporre all’inizio - così sembrerebbe - alcuna resistenza. Tuttavia, la voglia di ribellarsi e di uscire, per vivere la vita come tutti gli altri, ben presto emerge con tutta la sua prepotenza e l’irruenza propria della gioventù, che non si rassegna tanto facilmente alla privazione della libertà. L’arma per esprimere il disagio è la scrittura, le tante lettere rivolte ai familiari e al suo medico, che ignorerà le richieste di rivedere la decisione di ricovero forzato in manicomio.
Una storia come tante, comune a quanti non hanno avuto la stessa possibilità, quella di essere raccontati - anche se a posteriori - e riscattati attraverso il teatro e che, in questo caso, ha trovato ospitalità nelle parole e nei gesti di Cristina Crippa, interprete della tormentata protagonista. La rappresentazione, commovente e sentita, intervallata da rari, involontari momenti di ‘distensione’, si svolge in un ambiente che ha qualcosa di vagamente onirico e surreale, tutto giocato sui toni del beige, senza però quella nota cromatica che avrebbe potuto dare un po’ di calore ad una vicenda inevitabilmente triste e cupa. La Crippa vive ogni angolo del palco, e anche il dietro le quinte. Si muove famelica, febbricitante, sembra quasi farneticare nel racconto. Percorre rapida il perimetro della scenografia approdando, all’improvviso, tra il pubblico, al quale riporta con semplicità le sensazioni e i pensieri della giovane donna. È vestita di poco, abiti poco appariscenti, in linea con la moda di quegli anni, che quasi si confondono con le pareti. Indumenti che la paziente fa fatica a togliersi, rivelando un pudore quasi infantile, mischiato a quella vergogna che oggi ci potrebbe apparire così superata, anacronistica. L’ingenuità di Adalgisa si piega però, col tempo, alle dure leggi del manicomio, un luogo asettico e spettrale, votato all’analisi dell’io più profondo e nel quale a lungo andare, forse, pazzi si finisce con il diventarlo davvero. Interprete delle visioni della Lola del racconto è l’infermiera - la bravissima Patricia Savastano - che per molti, moltissimi anni si prenderà cura di lei. Una figura che accompagna e assiste la giovane, con un mix di durezza e inflessibilità, dall’immagine mascolina se non fosse per una cuffietta che ne ingentilisce i tratti.
“Lola che dilati la camicia” si riconferma uno spettacolo di successo, in scena da ben 18 anni, capace di ipnotizzare il pubblico che si emoziona e rimane turbato dalla narrazione di Adalgisa. Una donna sempre più sola e indifesa, ma comunque affamata di vita e di affetto che, nell’urlo finale, sembra riuscire finalmente a rivendicare la propria identità, prima di spegnersi definitivamente.