Rinviato il Concorso Tullio Serafin all'anno prossimo, sono usciti da apposite audizioni i giovani talenti canori che hanno dato vita, nell'ambito del festival Vicenza in Lirica 2020, a L'Olimpiade di Antonio Vivaldi. Il melodramma creato al Teatro di Sant'Angelo in Venezia nel febbraio 1734, ed oggetto due secoli dopo - alla Chigiana di Siena, nel 1939 - della prima riscoperta del repertorio teatrale del Prete Rosso.
L'Olimpiade vivaldiana portava a due gli utilizzi dei versi fra i più straordinari del Metastasio, ideato per la corte viennese che da tre anni l'aveva designato Poeta Cesare; musicato dal Caldara, era stato là portato in scena nell'agosto 1733. In seguito quel limpido libretto, sebbene talvolta manipolato, avrebbe ispirato innumerevoli altre intonazioni: da quelle più prossime di Pergolesi e Leo (rispettivamente nel 1735 e 1737) a quelle di Hasse, Sacchini, Traetta, Piccinni, sino più tarde di Cimarosa e Paisiello (nel 1784 e 1786).
Il lavoro di Cimarosa, guarda caso, inaugurò lo scomparso Teatro Eretenio di Vicenza, città dove ci troviamo ora. Seduti però al Teatro Olimpico, prezioso scrigno palladiano. Un posto sì ed uno no.
Orchestra piccolina, ma efficiente
In buca scorgiamo l'energico ed agile Ensamble Barocco del Festival diretto da Francesco Erle, rivelatosi da qualche anno concertatore di vaglia e buon conoscitore di questo repertorio. Dirige dal cembalo, come s'è ripreso a fare oggi. La partitura, in cui Vivaldi trasfuse da precedenti suoi lavori nove arie con relativi versi, è portata a dimensioni ragionevoli – due ore e un quarto di musica - senza sacrificarne il meglio; nella lettura che ci viene proposta risalta un'accurata restituzione strumentale, una scolpita drammaticità, massima ricchezza di tinte.
Due sole reprimende: una, che qualche arco in più, oltre allo smilzo quintetto radunato, avrebbe reso il suono più corposo; seconda, che lo spoglio accompagnamento dei recitativi previsto dalla revisione di Carlo Steno Rossi - presente al secondo cembalo - ci pare spesso persino irrisorio.
Voci e personalità
L'appropriata adesione stilistica dei giovanissimi cantanti – specie nella scansione dei recitativi - è frutto del precedente tirocinio a cura di Sara Mingardo – verace specialista del repertorio barocco, già fine Licida discografico con Rinaldo Alessandrini – sostenuto prima di passare nelle mani di Erle, minuzioso concertatore.
Colpiscono le loro personalità, colpisce il buon affiatamento generale; anche se, con buona evidenza, si percepisce che più d'una voce debba ancora perfezionarsi e maturare, per poi raggiungere l'auspicabile optimum. Sono il mezzosoprano Emma Alessi Innocenti (Megacle), il contraltista Sandro Rossi (Licida), il soprano Maddalena De Biasi (Aminta), i mezzosoprani Daniela Salvo (Aristea) e Francesca Lione (Argene), il baritono Patrizio La Placa (Clistene) ed il basso Elcin Huseynov (Alcandro).
Una scenografia fissa, storica, inamovibile
Gli obblighi da distanziamento e l'intoccabilità del boccascena palladiano hanno imposto non pochi limiti ad un regista solitamente fantasioso ed inventivo quale è Bepi Morassi, qui assistito da Laura Pigozzo. Peraltro le loro idee intrigano e deliziano, poiché vivacità teatrale e dinamismo gestuale non sono mai mancati; già dal gradevole spunto di proporre i personaggi quali statue d'un museo, che poi prendono vita muovendosi in scena con l'aiuto dei due solerti custodi (i bravi attori Luca Rossi e Francesco Motta) prima testimoni esterrefatti, poi complici attivi.
Con tale premessa, i costumi creati da Carlos Tieppo con la collaborazione di Daniela Boscato viaggiano tra statuaria classica – rappresentata ovunque nello spazio dell'Olimpico - ed il Secolo dei Lumi, giocando con ingegnosità sull'impiego di tonalità candide, sul finito/non finito, sul trionfo di busti, gonne, fasce e corpetti.