Lo specchio non mi convincerà che sono vecchio, finché tu e giovinezza avrete la stessa età; ma quando in te io scorgerò i solchi del tempo attenderò che morte dia pace ai giorni miei. Poiché tutta la bellezza che ti inonda altro non è che degna veste del mio cuore che vive nel tuo petto, come il tuo nel mio: come potrei dunque esser io più vecchio? Perciò, amore, abbi cura di te stesso così come io farò, non per me, ma per te custodendo il tuo cuore che terrò così prezioso qual tenera nutrice il suo bimbo da mal protegga. Non sperare nel tuo cuore quando il mio sarà distrutto: tu mi hai donato il tuo non per averlo indietro. (William Shaskespeare)Un attore non più giovane ma non ancora vecchio, dopo aver parlato in francese con il tecnico di sala, prova alcuni versi di una poesia inglese e viene interrotto da un giovane che piomba nel teatro di tutta fretta, chiedendo scusa per il ritardo. Riprendono a provare là dove hanno interrotto, dal monologo più famoso dell'Amleto. Cinico, annoiato, il maestro stuzzica la vanità del giovane, gli dice che lui è il suo specchio che in lui vede se stesso ma poi lo accusa di dire e non di sentire, di usare la testa e non il cuore nel recitare quei versi. Il giovane tentenna, riprende il monologo, cerca di seguire i consigli dell'attore, è eccitato che l'uomo lo abbia scelto come suo allievo, gli dà rispettosamente del lei, cerca di seguirlo in ogni consiglio, gli ha fatto già delle confidenze, ma quando capisce che le osservazioni dell'uomo, più che indicazioni di regia e interpretazione sono precetti di vita, diventa impaziente, si fa insolente. I due si sfidano a colpi di citazioni, shakespeariane e non, e rispecchiano due visioni diverse dell'amore per la recitazione e il teatro, o, più in generale, di come vivere nel mondo. Totale abnegazione, risposta a una chiamata per vocazione quella del maestro, adesione con riserve quella del giovane allievo, riserve per la vita privata cui non intende rinunciare, così come alle sue altre passioni, tra le quali quella del canto e l'amore. Tra un brano del Lear, uno standard jazz cantato al maestro a sorpresa, complice l'assistente di sala, i due attori, il giovane e l'adulto, si confrontano, indagano l'essenza della vita e del recitare, si accusano l'un l'altro di una solitudine che per il giovane è più una cattiveria da dire mentre per il maestro una realtà consueta e indolore. Lo scontro-confronto prende anche le pieghe della seduzione, dell'attrazione fisica che per il maestro prende la forma di una compiaciuta constatazione nell'avere influenza sul giovane allievo mentre per il giovane è la vanità compiaciuta di riuscire ad interessare di sé il grande attore che ha sacrificato la propria vita privata per calcare le scene. Ma il teatro prevale su qualunque altra verità ridefinendo ruoli e rapporti tra i due attori... Leonardo Petrillo scrive The Looking Glass (che ha ricevuto il premio Flaiano nel 2003) come un omaggio-florilegio al teatro shakespeariano ma è tutt'altro che un riempitivo per fare posto ai versi del Bardo. Al contrario Petrillo si serve di quei versi per fare un discorso suo, profondo, emozionante e vivo. Da un lato l'imperturbabile serietà, mista a una intima malinconia (sostenuta da un sano egocentrismo) per quello che è stato, del maestro, dall'altro il superficiale, vivissimo, tenero, seducente e altrettanto caduco entusiasmo del giovane per il teatro, per l'amore, per il canto, per la vita e tutto l'altro ancora che potrà essere... Due condizioni della vita che non attestano vincitori o vinti verità imposte o rivelate ma, come recita il programma di sala, solo l’evidenza dell’implacabile trascorrere del tempo. Non a caso nel finale il maestro recita i versi che abbiamo posto in esergo, come chiusa dello spettacolo, declamandoli direttamente al giovane, al suo specchio. Giovane che può essere uomo o donna, ragazzo o ragazza, i sentimenti sono sempre quelli. Tanto che, in una precedente messinscena del testo, il ruolo dell'allievo era interpretato a sere alterne da un ragazzo e una ragazza. Tutto rimane indicato, accennato, non per superficialità ma, al contrario, per sensibilità, per rispetto dell'intimità dei personaggi. In un'epoca come questa fatta di condivisione volgare e massificata dei sentimenti privati, il testo di Petrillo si staglia per l'eleganza, la profondità e il pudore degli argomenti trattati,il pudore del vero, non quello ipocrita di oggi dato in pasto alle telecamere. Il maestro è interpretato in maniera grandiosa, perfetta, ma al contempo umanissima da Nino Prester, un grande interprete (nonché uno dei migliori doppiatori italiani), che ci regala un maestro dalla voce impostata, dall'impassibile posa, ma segretamente distratto (o forse attratto) dal suo giovane allievo interpretato dal giovane Gabriele Bajo che oltre a le physique du rôle del giovane bello, di quella bellezza non cercata data semplicemente dalla giovane età, dimostra anche una piena padronanza del corpo, della voce e della recitazione rendendo credibili sia i momenti in cui recita Amleto impacciato (perchè così vuole il copione) sia quando accusa il suo mentore di essere solo. Alla fine gli applausi, copiosi e lunghissimi, li richiamano in scena più e più volte e se per magia avessero ricominciato lo spettacolo daccapo tutti sarebbero rimasti a vederlo una seconda volta, o per tutta la vita, come confessa, candido, nel finale, il giovane allievo al suo maestro, quando questi gli chiede, vanesio, per quanto tempo mi guarderesti recitare?
Visto il
30-01-2010
al
Stanze Segrete
di Roma
(RM)