Se nel lontano 1928 i 3 soldi potevano rappresentare il prezzo consigliato, come diremmo oggi, per il proletariato, pubblico per il quale era stato pensato lo spettacolo, va tuttavia riconosciuto che la cifra non individua certo il valore dell’opera e, nella versione in scena al Piccolo Teatro Strehler, andrebbero considerati i multipli di questo numero. Agli spettatori poi, stabilire dove fermarsi nella valutazione.
L’intreccio narrativo de “L’opera da tre soldi” di Bertolt Brecht, ormai arcinoto, si svolge nei bassifondi della Londra vittoriana, una ‘corte dei miracoli’ fatta da poveri, banditi e diseredati, in cui dominano due figure diverse ma soprattutto tra loro antagoniste: Mackie Messer, ‘diabolico’ gangster senza scrupoli, disposto a tutto per la cosiddetta ‘bella vita’ e Jeremiah Peachum, che ipocritamente e meschinamente sfrutta la miseria che lo circonda per i propri loschi affari. Sono solo due di un nutrito gruppo di personaggi che si muove sulla scena, alternando la recita al canto. Ed è quest’ultima una delle caratteristiche proprie di uno spettacolo che non è un musical (e non vuol esserlo), ne’ un’opera lirica (ma potrebbe diventarlo). La ricercata versione diretta da Damiano Michieletto, affiancato da Giuseppe Grazioli che dirige sapientemente dalla buca del teatro l’Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi, si presenta piuttosto come un prodotto nuovo e originale, che fa della musica una parte integrante della messinscena. In un continuum armonioso e fluido in cui non ci sono cesoie: le canzoni, rigorosamente tradotte dal tedesco in una nuova versione diversa da quella strehleriana, si insinuano rapide nella narrazione, accompagnando e sostenendo il racconto e hanno una valenza specifica. Rifuggendo la scorciatoia del facile intrattenimento, costituiscono invece un ulteriore modo di esprimere concetti che la parola talvolta non riesce a chiarire. Sentimenti come nostalgia e melanconia, ad esempio. Nessuna romanticheria tuttavia è presente, anzi. Senza interrompere mai la narrazione ma arricchendola, le canzoni tengono alta l’attenzione ma fanno quasi da allarme per lo spettatore, a cui è richiesto di rimanere sempre vigile e cosciente, data anche la natura scabrosa dei testi, quasi stridente con melodie che sembrerebbero andare nella direzione contraria.
Alcune osservazioni riguardo cast e scelta dei costumi aiutano a definire, in modo peculiare e differente, questa versione che arriva a 60 anni dalla Dreigroschenoper allestita in Via Rovello e apprezzata dal drammaturgo tedesco, che assistette al debutto. Dei quasi venti attori in scena, non cantanti, sembra inutile specificare come nomi quali quello di Rossy de Palma e Peppe Servillo spicchino nel cast, fosse anche solo per presenza scenica, priva di parola. Ma potremmo fare così un torto agli altri protagonisti, a partire da Maria Roveran che interpreta Polly Peachum in maniera impeccabile: convincente quando recita, ma anche quando sottolinea con le canzoni a lei affidate gli stati d’animo del suo personaggio, straordinariamente mutevoli se si considera che la storia si svolge nell’arco di soli tre giorni. Marco Foschi è Mackie Messer: non stupisce che la scelta sia caduta su di lui, soprattutto dopo l’efficace prova attoriale nei panni di Septimo Miau di “Divine Parole”, la cui interpretazione di un cinico arrivista privo di qualsiasi valore morale lo ha contraddistinto in uno spettacolo tanto difficile, impegnativo quanto il classico brechtiano.
I costumi, non d’epoca o perlomeno non sempre, sono tali da ribadire l’attualità di un testo che non ha bisogno di modernizzazioni, perché la contemporaneità dei temi trattati è viva e pulsante, e soprattutto declinabile nelle questioni politico-sociali che segnano gli anni che stiamo vivendo. La classe operaia non esiste quasi più, ma la povertà e la misera si e sono presenti in varie forme, neanche troppo mascherate. Una riflessione che pare sia stata formulata anche da Michieletto, il quale sceglie di trasfigurare i mendicanti nei moderni migranti, costretti come animali in gabbia a guardare dietro le sbarre l’ostentata opulenza dei pochi che si fanno beffe e sfruttano, senza timor di dio, l‘indigenza e la disperazione delle masse. Noto per la sua stravaganza e irruenza stilistica, Michieletto fa poi una scelta drammaturgica sicuramente d’impatto: partire dalla fine, dal processo a Mackie Messer e procede all’indietro, in un flashback in cui tutti sono di volta in volta giudici e testimoni, in un tribunale in cui non è solo “la corte che si aggiorna”, ma anche la platea in sala è chiamata a giudicare. Rompere la quarta parete in modo deliberato e ponderato, appare dunque inevitabile: nonostante il luccicante bagliore del sipario a frange dorate, che farebbe pensare ad un’operetta musicale e leggera, s’innesca invece una forte tensione narrativa volta a risvegliare una ‘coscienza sociale’ spesso assopita, assolvendo così al compito del teatro epico concepito da Brecht che si propone di parlare in modo schietto e sincero e senza aulici intellettualismi della società e delle sue complesse dinamiche: se davvero “il denaro non ha odore” e “chi vince fa la storia e chi perde tacerà”, è però pur vero che “chi ha fame si ribellerà”. È solo questione di tempo, la finzione scenica ce lo ricorda e quest’ ”opera da tre soldi”, senza tradire il sentiment originale, vince la sfida dell’originalità.