«Ci sono versioni de "L'opera da tre soldi" che volutamente presentano in forma ruvida e sciatta la parte musicale, pensando più alla seconda parte del titolo, "da tre soldi", che alla prima, "Opera"» scrive il regista Luca De Fusco nelle sue succinte note di regia, a corredo di questo spettacolo. Ma De Fusco, potendo contare su una formidabile compagnia ruotante alla forte personalità di Massimo Ranieri («un attore talmente adatto, con la sua fisicità, con le sue doti canore, con il suo fascino spaccone, da chiedersi come mai non abbia già interpretato altre volte questo ruolo», commenta ancora lo stesso regista) ha deciso questa volta invece per la sua "Opera da tre soldi" di pensare le cose in grande. Forse per questo il suo spettacolo ha viaggiato molto dopo il positivo esordio al Napoli Teatro Festival nel luglio 2011, giungendo subito dopo al Festival dell'Operetta di Trieste; e poi prendendo di nuovo il via con questa breve tournée iniziata a febbraio al Teatro Olimpico di Roma, proseguita all'Alighieri di Ravenna e conclusasi con queste fortunate recite marzoline veneziane. Cose fatte in grande, abbiamo detto. Cominciando da una scenografia imponente realizzata dal pittore Fabrizio Plessi abbozzando un bassofondo decisamente postmoderno: la facciata di un alto palazzo in rovina che pare devastato da un bombardamento, con grandi finestroni dove spuntano talora i personaggi, ma più spesso appaiono evocative immagini virtuali. Davanti, cumuli di vecchi computer da smaltire, per attualizzare la storia ai tempi moderni, ed altri oggetti di scena che velocemente appaiono e scompaiono. I personaggi sono immersi nelle fredde luci di Maurizio Fabretti e declinati in tonalità bianche/grigie/nere che ritroviamo sulle maschere caricaturali e negli abiti dei personaggi, disegnati dalla fantasia di Giuseppe Crisolini Malatesta. Un'umanità degradata, malavitosa e trafficona, dalla bassezza morale assoluta eppure ridicolmente impettita, che De Fusco fa interagire in un clima di angosciosa frenesia, senza voler suscitare nello spettatore il men che minimo sorriso. Nemmeno quando entrano in gioco le spettrali coreografie di Alessandra Panzavolta.
In buca era disponibile un'orchestra 'vera' seppure a ranghi ridotti; all'origine quella del San Carlo di Napoli, ora quella formata dagli efficienti strumentisti dell'orchestra veneziana. A guidarle sempre Francesco Lanzilotta, che di tutti gli umori di cui è impregnata la variegata partitura di Kurt Weill - umori di jazz, musical, canzonette, melodramma e/o operetta che siano - ha saputo evidenziare ogni sfaccettatura e colore, con grande intelligenza e l'indispensabile souplesse, sostenendo egregiamente quanto man mano accadeva sul palcoscenico.
Mettendo in gioco un cast indubbiamente dotato di grandi qualità canore ed attoriali, la regia di De Fusco non ha fallito il colpo. Tutti possono meritare un caldo applauso: Ugo Maria Morosi e Margherita di Rauso erano i due loschi coniugi Peachum, taglienti farabutti; Gaia Aprea una Polly deliziosamente ingenua e naïf, capace di gorgheggiare ironicamente come un vero soprano; Lina Sastri Jenny delle Spelonche dai tratti umanissimi, una femmina/tigre commovente e tormentata; Paolo Serra tratteggiava abilmente un Jackie Brown ambiguo nella sua melliflua disonestà. Molto bravi gli altri: Fabrizio Nevola (il mendicante Filch), Leandro Amato (Mathias), Luigi Tabita (l'ingenuo Jakob), Antonio Speranza (Robert), Luca Saccoia (Jimmy), Mario Zinno (Ede), Ivano Chiavi (Walter), Patrizia di Martino (un'ammiccante Lucy Brown). Ricordiamo pure Roberto Bani (il reverendo Kimball), Dalal Suleiman (Vixen), Acai Lombardo Arop (Dolly), Ester Botta (Betty), Francesca Balestrieri (Molly), Dely De Maio e Patrizia di Martino (due prostitute).
Ho lasciato volutamente per ultimo il grande protagonista della serata, cioè Massimo Ranieri: un Mackie Messer possente, consegnato al massimo dell'espressività pur mettendo in fila sei recite consecutive, e recitato veramente alla perfezione. La sua figura sbalza vivida, quasi titanica - specie se vista rispetto alla piccineria non solo dei rivali, ma anche degli amici - seppure il suo Mackie sia veramente indisponente nella sua grettezza morale, nella sua intima cattiveria, nella sua sgradevole malvagità. Indimenticabile sopra tutto il possente monologo sulla forca, declinato da Ranieri in maniera assolutamente esemplare, trasfigurando persino la propria voce come se provenisse già da un fosco Oltretomba. Sferzando con parole feroci una società ipocrita e corrotta, sempre eguale che si sia nella Londra settecentesca di John Gay o nella Berlino degli anni Trenta; e che purtroppo si ripropone sempre eguale anche ai giorni nostri, là dove dominano gli interessi delle banche, lo strapotere delle Borse, le connivenze mafiose, la corruzione dei politici e delle istituzioni. In fondo, ladri, scassinatori e grassatori al loro confronto paiono solo dei miseri delinquentucoli da strapazzo, che agiscono per necessità di vita e paiono quasi meritevoli di perdono.
Spettacolo di alto livello, dunque, ma con due difetti che non vanno taciuti. Il primo, la nuova traduzione di Paola Capriolo realizzata proprio per questo allestimento, è indubbiamente eloquente e molto 'teatrale' nei momenti di recitazione, mostrando massima attenzione al potere scenico di ogni parola e frase; ma appare a mio avviso assai meno funzionale - e talora persino incongrua - nelle parti cantate, dove incespica nella scansione metrica e pecca proprio di musicalità.
Secondo più grave difetto, un'amplificazione delle voci assolutamente sproporzionata e innaturale, al punto da sminuire di molto la preziosa componente orchestrale relegata ahimé talora al limite dell'udibile.
Prosa
L'OPERA DA TRE SOLDI
L'OPERA DEI MENDICANTI
Visto il
al
Metropolitan
di Catania
(CT)