Lirica
LOU SALOMè

lou salomè risorge alla fenice

lou salomè risorge alla fenice

Per ribadire la propria vocazione di ente attento al repertorio contemporaneo, la Fenice propone in inaugurazione di stagione “Lou Salomé”, l’unica opera di Giuseppe Sinopoli composta per il teatro di Monaco di Baviera, dove andò in scena nel 1981, ma che poi, ritirata dalle scene dal compositore per poterla rielaborare, non fu mai più rappresentata. Al di là degli anniversari e dei tributi, trent’anni dalla sua unica rappresentazione e dieci anni dalla scomparsa del musicista veneziano d’adozione, l’opera è un capolavoro che per bellezza musicale e poetica merita un posto stabile nel repertorio.

Attraverso l’affascinante figura di Lou Salomè, scrittrice e psicoanalista russa di forte personalità, amante di Rilke, musa di Nietzsche, donna fatale e spirito libero legata fra gli altri anche a Freud, Sinopoli (non a caso anche psichiatra) racconta sé stesso, il suo forte legame con le atmosfere musicali e spirituali mitteleuropee e l’inevitabile andare incontro alla morte.
Il libretto in tedesco di Karl Dietrich Gräwe, dal “Lebensrückblick “della stessa Lou Salomé con passi di Nietzsche e Rilke, è un testo letterario complesso che merita una lettura approfondita e costituisce una meditazione profonda sui quesiti legati al senso della vita e della morte, come non mai indissolubilmente legati. Affiorano, fra lirismo e “Sprechgesang”, parole che illuminano l’essenza psicologica della protagonista: “il mio spirito è instancabile, più conosce, più il mio corpo desidera la sua morte“ e ancora “si stanca presto della vita chi più la desidera e il sole nutre il fiore che col fuoco poi distrugge”. E, alla luce della tragica quanto fatale scomparsa di Sinopoli che morì d’infarto sul podio a Berlino, il Lied finale di Lou costituisce una sorta di commovente testamento spirituale del musicista: “Libertà di vivere, libertà di morire. Ora la vita è alle mie spalle. Io l’ho vissuta e dico si alla vita.Dico si alla morte”.

Con Lou Salomé Sinopoli prende le distanze dalle avanguardie del secondo novecento che ne avevano caratterizzato la prima fase compositiva per volgersi al mondo musicale mitteleuropeo tanto amato; nella partitura eclettica affiorano dal profondo con una sorta di immedesimazione (e non citazione) echi del Tristan, di Richard Strauss, Berg (Lou è anche Lulu!) e non poteva mancare Mahler, fra liederismo e canzone popolare, guardando fino a  Kurt Weill.

Per quanto riguarda lo spettacolo è stata riproposta la formula sperimentata con successo l’anno scorso con “Intolleranza”: affidare la cura dell’allestimento a un team di giovani studenti della Facolta' di Design e Arti IUAV di Venezia affiancati da tutors eccellenti quali Luca Ronconi, Franco Ripa di Meana, Walter Le Moli e Margherita Palli. Partendo dal presupposto che si tratti di un’opera antidrammatica, è stato sottolineato il procedere per illuminazioni di un flusso di coscienza che ricorda momenti di un vissuto dove il reale s’intreccia con l’inconscio. La regia è volutamente antifigurativa e tralascia le notazioni didascaliche –realistiche  presenti nel libretto, perseguendo una rappresentazione simbolica affidata alla gestualità rarefatta dei protagonisti.

Lo spazio scenico abituale viene sovvertito, l’azione avviene principalmente in platea dove le poltroncine di velluto rosso si sono fatte da parte stringendosi in cerchio vicino ai palchi per fare spazio a una gigantesca betulla, “cuore” della scena, e a una cascata di libri, polvere e detriti che dal primo ordine scivolano verso la platea e da cui talvolta entrano in scena i personaggi. Per terra qualche specchio e una croce inclinata fra i cui bracci s’incuneano stringendosi come in  una sorta di deposizione gli amanti di Lou, mentre lei vi si adagia con la sensualità della donna fatale.
Lo spettacolo ha il merito di proporre uno spazio diverso e senza barriere (una via di mezzo fra teatro elisabettiano e tragedia greca) che consente un contatto ravvicinato con gli interpreti di cui si percepiscono da vicino le profonde pulsioni. Parte dell’azione avviene sul palcoscenico, dove un salotto fine secolo con l’immancabile divano “psicoanalitico” è incastonato fra l’orchestra e una parte del pubblico, così vicino, se non addirittura “dentro” l’azione scenica, da provocare turbamento.
Turbamento favorito e voluto dal gioco di sdoppiamenti dei personaggi in cantanti e attori, parti cantate e recitate (queste ultime amplificate) che s’intrecciano e s’inseguono nello spazio. Del coro invisibile si ode solo il canto, diffuso tramite amplificazioni dai palchi, proveniente da un non-luogo.
Proiezioni in movimento illuminano gli stucchi dorati dei palchi e ricreano l’incanto di un bosco, le radici di un albero, i dorsi dei libri della biblioteca di Borges, trasformando la Fenice in una giostra che gira sotto la triviale musica “mahleriana”. Magnifico!
Qualche perplessità sul finale: nel momento del Requiem che chiude l’opera le proiezioni sono fiamme che lambiscono la  Fenice e un replicante di Sinopoli  attraversa la platea per poi sdraiarsi sul divano a contemplare il teatro, ultimo, ma non necessario, tributo al compositore.

Per una primadonna Lou Salomé è un ruolo straordinario e Angeles Blancas Gulín è una protagonista a tutti gli effetti per il canto duttile e sicuro, l’incisività dello Sprechgesang, una fisicità forte, espressionista per lo scatto e decadente per il languore. La cantante interpreta la parte più profonda e viscerale del personaggio, mentre l’attrice Giorgia Stahl, dall’acconciatura raccolta, l’abito accollato di rigida seta blu, il cappotto con il collo di pelliccia che ricordano quadri della Secessione è il suo doppio razionale e storico.
Grande rilievo ha nell’opera il ruolo di Nietzsche affidato alla voce recitante del bravo Claudio Puglisi. Bene anche gli altri interpreti. Gian Luca Pasolini trova giusto lirismo nel doppio ruolo di Paul Ree e del servitore. Roberto Abbondanza è interprete sensibile e risulta particolarmente adatto per tratteggiare in modo dolente la figura del marito Friedrich Carl Andreas. Bene anche il Rainer Maria Rilke di Mathias Schulz che con lirica voce tenorile dona giusta poesia al canto sulla durata dell’amore. Corretto Marcello Nardis nel doppio ruolo del pastore Gillot e del Professor Hendrick. Completano adeguatamente il cast Julie Mellor nel duplice ruolo di  Malwida von Meysenbug e della madre di Salomé e Alessandro Bressanello (il secondo servitore e un contemporaneo che ha molto viaggiato). Bravi anche mimi e attori il cui movimento scenico s’intreccia e si riflette in quello dei cantanti.

Sotto il gesto asciutto di Lothar Zagrosek rivive il mondo creato da Sinopoli  e la partitura eclettica viene unificata da un clima  sonoro avvolgente e concitato dove schegge espressioniste esplodono  fino a  dissolversi in un lirismo estenuato che esprime l’anelare alla “Vernichtung”. Se straordinaria è l’orchestra per affiatamento e precisione, non è da meno l’ottimo coro preparato da Claudio Marino Moretti.

Lo spettacolo esige un notevole sforzo intellettuale da parte dello spettatore (per un testo filosofico difficile da seguire nonostante i sopratitoli, una partitura opulenta, una modalità di rappresentazione che richiede una concentrazione continua) ma alla fine paga: un plauso a Lou Salomé anche per questo!

Visto il
al La Fenice di Venezia (VE)