Questo lavoro di John Kolvenbach ruota tutto attorno al personaggio del giovane Bean, un personaggio ambiguo ed affascinante. Prima, centro silenzioso dei discorsi e dei movimenti degli altri, poi, causa di sconvolgimenti nella vita di tutti. Il significato del suo minimalismo – ed in generale, di tutto il lavoro di Kolvenbach – è interessantissimo: “gli oggetti sono bugiardi e non possono descrivere la nostra identità”. Si pone l’accento sull’importanza della relazione, la relazione con l’altro, che da senso ad ogni cosa (e, di conseguenza, anche agli oggetti), trasformandoci e rendendo coraggiosi.
Bravissimo Davide Nebbia, che si trova a dar vita ad un copione di certo non facile. Strepitosa Enrica Nizi, l’interprete di Molly: nei panni di un personaggio quanto mai bizzarro e surreale, è espressiva, viva e accattivante.
C’è da fare, però un appunto. Ad aprire la scena sono Jo ed Harry e quella che dovrebbe essere una discussione talmente animata da togliere il respiro, scandita da ritmi rapidi e toni concitati, in cui le nevrosi della moglie Joan si scontrano con la razionalità esasperata del marito Harry, dando così forma, colore e carattere a questa coppia di personaggi, che – da copione – è travolta dalla frenesia della routine quotidiana, risulta invece lenta, insicura e un po’ piatta: mancano le variazioni estreme di toni che il personaggio di Jo richiede e soprattutto, mancano intensità e personalità nell’interpretazione. Non si può dire che i due attori non siano preparati e ben impostati tecnicamente, ma pare quasi che non “sentano” i loro ruoli.
Jo, in particolar modo, dovrebbe risultare simpatica al pubblico e coinvolgente nella sua maniacalità, rendendosi a suo modo protagonista della scena. Anche le battute ironiche con cui si rivolge al marito per prenderlo in giro, mancano di brio e convinzione. Marito e moglie, che dovrebbero essere nella prima parte solo distratti e troppo indaffarati per prendersi seriamente cura di Bean, appaiono invece privi di umanità vera.
Nel panorama del teatro moderno, Lovesong è un testo originale e fantasioso, su cui senza dubbio questa compagnia, che lo porta in Italia in prima assoluta, dovrebbe puntare ed insistere, apportando solo qualche miglioramento che non richiederà grandi sforzi, viste le potenzialità.
La scelta della scenografia, essenziale e particolarmente suggestiva, con dei drappi nel retro che confondono reale e surreale, immaginazione e realtà, è perfetta. I giochi di luce danno e sottraggono importanza a ciascun elemento e personaggio.
E, nonostante il titolo faccia riferimento alle canzoni d’amore, sono quasi assenti musiche e suoni, lasciando tutto lo spazio all’alternanza di voci e silenzi.
Roma, Teatro Agorà, 13 Gennaio 2009
Visto il
al
Agorà 80 Sala A
di Roma
(RM)