Ha sinora molto girato, Luci mie traditrici – testo, musica, drammaturgia di Salvatore Sciarrino - che la Fenice ci presenta in questo scorcio d'estate al Teatro Malibran.
Ha sinora molto girato, Luci mie traditrici – testo, musica, drammaturgia di Salvatore Sciarrino - che la Fenice ci presenta in questo scorcio d'estate al Teatro Malibran. Creato nel 1998 per il Festival di Schweitzingen, ha le caratteristiche di un'opera da camera – concisa durata, pochi interpreti, un organico non ampio – mantenendo però il respiro di un lavoro più ambizioso.
Ed è divenuto a conti fatti l'opera più conosciuta del maestro siciliano, che nel 2014 proprio qui, a Venezia, ricevette il Premio”Una vita per la musica”. E' una sorta di work in progress, che nella trentina di allestimenti diversi, fra scenici e concertistici, succedutisi in tre continenti diversi, Sciarrino ha sovente ripensato: oltre che nella lingua del libretto - ispirato alla tragedia secentesca Il tradimento per l’onore del veneziano Francesco Stramboli, e da lui steso in italiano, tedesco, inglese - anche nella distribuzione vocale od in taluni dettagli strumentali.
Una partitura mutevole nel tempo
Ad esempio, per questo approdo veneziano ha rielaborato il “congedo” finale – una pagina a sé, un madrigale ora a 5 voci e strumenti, Distendi la fronte – inserito per la prima volta a Basilea un paio d'anni fa. Un brano definito dal compositore «non d'obbligo, ma necessario», e pensato perché «da tragediografo non di buona volontà, ma consapevole, ho bisogno che torniamo a casa puliti, e non sporchi di sangue. Il congedo serve a questo».
In effetti, nella trama di Luci mie traditrici Sciarrino si ispira al clamoroso e feroce delitto d'onore – l'uccisione della moglie e del suo amante - commesso dal compositore Gesualdo Da Venosa. Pur se poi pone l'azione ai giorni nostri e l'affida a personaggi quasi anonimi, calandola in un'ambientazione banale e generica, coll'intento di sublimarne così, in qualche modo, la fosca trucidità e la portata dirompente.
Nuove scene, nuova regia
Per questa messa in scena veneziana le belle scene – quattro interni/esterni roteanti - sono di Massimo Cecchetto, i moderni abiti di Carlos Tieppo, le luci di Fabio Berettin. La scabra ed eloquente regia la dobbiamo invece al talento di Valentino Villa. Però avremmo fatto volentieri a meno delle tre figure mascherate, che nulla aggiungono alla drammaturgia.
Tutto l'apparato musicale sta sulle solide spalle di Tito Ceccherini, concertatore qualificato ed esperto del repertorio contemporaneo. Sotto la sua bacchetta i quattro onirici inserti strumentali, rielaborazioni essenziali d'una dolente chanson di Claude Le Jeune, Qu'est devenu ce bel oeil, risuonano a meraviglia. E' pure merito, in buona parte, degli efficienti solisti de La Fenice. Sotto la una guida così scrupolosa, le voci procedono sicure. Le sentiamo accompagnate da risonanze estremamente rarefatte, sospese, remote, lentissime: suoni che il compositore siciliano ottiene dallo strofinio dell'archetto sulle corde degli archi, da soffi appena percettibili dei flauti, dal distante borboglio della grancassa.
Compiti difficili per le voci
Ai cinque cantanti in scena è consegnato una sorta di moderno recitativo dal carattere monodico e geometrico, pressoché privo di spinte melodiche, che dinamicamente va dal sussurro al grido improvviso. Combinazioni di vocalità più sovente in contrasto che in rapporto dialettico – voci che si avvicinano, si affiancano, si respingono di continuo – ma sempre intrise di densa espressività. Un compito, in assoluto, assai arduo da assolvere in scena. Nondimeno, abbiamo trovato interpreti irreprensibili ed efficaci: Wioletta Hebrowska (la Malaspina), Otto Katzmeier (il Malaspina), Leonardo Cortellazzi (il servo), Carlo Vistoli (l'ospite), Livia Rado (voce dietro il sipario).