Al Carlo Felice Lucia di Lammermoor in un nuovo e atteso allestimento firmato dal maestro dell’horror italiano, Dario Argento, alla sua prima regia per il teatro d’opera. Sarà forse la forza del nome di un regista noto al grande pubblico ma è innegabile che si sia riacceso l’interesse sul teatro genovese da parte di pubblico e critica con un’affluenza che non si vedeva da tempo. Ci aspettavamo forse più “effetti“ e una maggiore originalità nella trattazione del soggetto: l’approccio di Dario Argento è piuttosto cauto e tradizionale ma non è poi un male in quanto lo spettacolo risulta facilmente leggibile e in definitiva funziona. La scenografia dello spettacolo è stata realizzata con materiale disponibile nei magazzini del teatro, riassemblato dal gusto di Enrico Musenich (scenografo ormai esperto in operazioni di virtuoso recupero) e, integrata da fondali animati (videoproiezioni di Eugenio Pini), risulta apprezzabile per unitarietà stilistica e impatto visivo.
Una proiezione brumosa di un paesaggio scozzese con cieli neri, architetture turrite e alberi agitati dal vento accompagna il fosco preludio orchestrale, la scena si apre poi in un bosco illuminato dalla luna dove tronchi spogli e foglie accartocciate per terra suggeriscono un’atmosfera autunnale e crepuscolare che ben si addice a costumi e gioielli di gusto preraffaellita di Lucia (sontuosi i costumi di Gianluca Falaschi) dalla lunghissima chioma rossa e ricciuta. Ammassi di pietra accennano gradini e una vasca marmorea simile a un sepolcro suggerisce una fontana da cui, con innegabile effetto sorpresa, sorge una donna nuda dalla pelle candida e i capelli bagnati, che sembra “doppiare” con le sue movenze il racconto di Lucia e dare corpo al fantasma che l’ossessiona. Il nudo spettro appare di nuovo nella galleria superiore del castello come spettatore muto del confronto fra Lucia e il fratello: qui la sua enigmatica presenza, se pur non giustificata da ragioni drammaturgiche, dà un tocco inquietante e morboso alla vicenda.
La parte seconda del secondo atto si apre con Edgardo seduto vicino a una abat-jour con dietro uno sfondo dipinto a cassettoni color seppia (tutto piuttosto incongruo), mentre fuori infuria la tempesta. Lo scontro fra i due nemici (Enrico in piedi, Edgardo in poltrona) risulta piuttosto improbabile e non in sintonia con musica e situazione.
Argento mette in scena il delitto come fosse un suo film: la galleria gotica diventa uno schermo nero che per un istante mostra il fotogramma di Lucia intenta a pugnalare ripetutamente il marito in un tripudio di sangue e urla fuori scena tipicamente horror. L’espediente funziona nell’immediato perché l’immagine è forte e inedita ma rende superfluo il successivo racconto di Raimondo. Un po’ di “profondo rosso” nella pazzia ci può anche stare e vediamo Lucia ricoperta di sangue con un pugnale sanguinante in mano, che si siede restando in bilico sul parapetto della scalinata che taglia in trasversale la scena, un po’ folle e un po’ bambina, dondolando le gambe nude sporche di sangue con le mani sulle orecchie per non sentire le proprie colorature.
Un cambio scena a vista (prassi spesso adottata al Carlo Felice e di forte presa sul pubblico) prepara il finale: le quinte laterali e la galleria di fondo si alzano svelando gli immensi spazi del palcoscenico con le loro attrezzerie, al centro si crea una voragine da cui affiora un cimitero con le tombe degli avi ove si aggira fra le brume Edgardo a cui apparirà il fantasma di Lucia in una morte e trasfigurazione.
Désirée Rancatore ha affrontato il ruolo protagonista se pur indisposta, per cui andrebbe sospeso il giudizio sull’effettiva resa vocale: il soprano ha cantato con evidente cautela nei primi due atti per giocarsi tutte le carte durante la scena della follia dove ha convinto, oltre che per gusto interpretativo e musicalità, per le colorature da usignolo che, lungi da risultare vuoti virtuosismi meccanici, suonano dolci e delicate e trasmettono il senso di fragilità e allucinazione in cui è sospesa Lucia. Gianluca Terranova ha dei limiti tecnici nel controllo dei passaggi ma il canto è vibrante e pieno di temperamento e rende il personaggio di Edgardo credibile e appassionato; soprattutto ci piace la sua recitazione moderna e immediata. Stefano Antonucci, non avendo voce particolarmente caratterizzata a livello timbrico, lavora su accento e dizione e il suo Enrico risulta ben riuscito e meno monolitico del solito. Giovanni Battista Parodi ha sostituito in tutte le recite Orlin Anastassov nel ruolo di Normanno: se all’inizio si è riscontrato qualche problema d’intonazione, convince nella sentita aria del terzo atto. Un po’ debole l’Arturo di Alessandro Fantoni, Enrico Cossutta è Normanno, partecipe e corretta l’Alisa di Marina Ogli, Fabiola Di Blasi è il mimo che presta il corpo nudo ai fantasmi di Lucia.
Chiara nel disegno e molto equilibrata fra lirismo e dramma la direzione di Giampaolo Bisanti, decisamente attento alle ragioni del canto in un riuscito equilibrio buca/palcoscenico. Ottimo il sensibile accompagnamento orchestrale e del flauto solista nella scena della pazzia. In particolare forma il coro del Carlo Felice preparato da Pablo Assante che ha dato un’ottima prova di affiatamento vocale e precisione scenica.
Applausi calorosi per tutti da parte di un pubblico decisamente numeroso.