Lirica
LUCIA DI LAMMERMOOR

Giulietta e Romeo tra le Highlands scozzesi

Giulietta e Romeo tra le Highlands scozzesi

Su come Lucia di Lammermmor contribuisca a codificare insieme alla Norma l'essenza del belcanto all'italiana, non sussistono dubbi. Di più: Lucia costituisce la quintessenza stessa dell'opera romantica, sia per il taglio musicale, sia per la scelta del soggetto tratto dal un fortunato romanzo di un amatissimo autore del primo '800, Walter Scott, re del genere gothic. Il quale poi, in fondo, non fa che trasporre l'impossibile amore di Giulietta e Romeo nelle brughiere delle Highlands, pur appellandosi ad un fatto realmente accaduto a metà '700. Protagonisti, i membri di due famiglie scozzesi rivali.
 

Un cast non del tutto convincente

Nel recente passato, nella sala veneziana la protagonista del capolavoro donizettiano è stata spesso appannaggio di grandi interpreti: Dal Monte, Callas, Sutherland, Scotto, Devia, Serra e per ultima la Pratt. Oscillando cioè dal versante delle Lucia/usignolo angelicate a quello delle Lucia/femmina consapevole. La giovane Nadine Sierra opta quest'ultima, infondendo al suo personaggio commovente profondità e la purezza d'un canto fresco, preciso nelle agilità e cristallino nel timbro. Molto avvincente nella scena della pazzia, complice l'etero accento della glassharmonica ed un'orchestra in punta di piedi. Francesco De Muro è un Edgardo di scarsa fierezza, anzi monocorde e un po' lagnoso; Markus Werba disegna un Ashton virulento e plateale e Simon Lim un lirico ed accorato Raimondo. Dirige con molta attenzione, incisività drammatica ed impellente vigore Riccardo Frizza, qui alla sua prima Lucia. Ha chiara visione della partitura e la plasma in un unico arco narrativo, che regge assai bene tutte le tensioni in essa infuse. Sotto la sua bacchetta, l'Orchestra ed il Coro veneziani gli rispondono attenti e solleciti sin dal fosco e misterioso Preludio.
 

Uno spettacolo con luci ed ombre

Anche Francesco Micheli esordisce in Lucia, e pure in Donizetti, bergamasco come lui. Non tutto però in questo suo spettacolo convince. L'unità di tempo e luogo è sin troppo spinta, per il ritmo pressante, l'ostinata compresenza dei personaggi e per la scenografia di Nicolas Bovey: sfondo di tetre nubi, ed un magazzino di vecchi mobili affastellati che i coristi svuotano man mano sino a lasciare la scena vuota. Però, verso la fine, ecco una decina di grandi tavoli appesi a mezz'aria. Altro segno di una regia in sé cervellotica, che accanto ad ottime intuizioni drammaturgiche imbrocca bizzarre pensate – un Ashton debosciato ed in perenne ubriachezza, o il persistente passar di mano d'una grande croce – creando inciampi al fluire del racconto con gesti talora criptici e misteriosi, come il continuo lacerar foglietti da parte dei personaggi. I costumi di Alessio Rosat impiegano in chiave moderna e piccolo-borghese (le dame, viste come tante Regina Elisabetta) i tradizionali tartan scozzesi.

 

Visto il 23-04-2017
al La Fenice di Venezia (VE)