Lirica
LUCIA DI LAMMERMOOR

Le nuvole del destino

Le nuvole del destino

Questo è certamente il mese di Lucia di Lammermoor, in scena in ben quattro enti lirici: ha cominciato Venezia (nuova produzione, direttore Antonino Fogliani, regista John Doyle, interpreti Claudio Sgura, Jessica Pratt, Shalva Mukeria, dal 20 maggio all'1 giugno per undici rappresentazioni), seguono Trieste (nuova produzione, direttore Gianluca Martinenghi, regista Giulio Ciabatti, interpreti Alberto Gazale, Silvia Dalla Benetta, Celso Albelo, in scena dall'11 al 18 giugno per sette rappresentazioni) e Palermo (allestimento delle Muse di Ancona, direttore Stefano Ranzani, regista Gilbert Deflo, interpreti Nicola Alaimo, Désirée Rancatore, Francesco Demuro, in scena dal 12 al 19 giugno per sei rappresentazioni), chiude Torino (allestimento del Maggio fiorentino, direttore Bruno Campanella, regista Graham Vick, interpreti Fabio Capitanucci, Elena Mosuc, Francesco Meli, in scena dal 21 giugno al 3 luglio per dieci rappresentazioni).

Lo spettacolo della Fenice è immerso in una tinta livida, grigia. La scena di Liz Ascroft è completamente vuota e giocata fondale e sipari (teli geometrici rigidi) dipinti con nuvole, quel cielo a cui il libretto in continuazione fa riferimento: a cominciare dalle “nubi d'orror” di Normanno nell'incipit. Un cielo di Scozia, un cielo di amore contrastato, un cielo di infelicità. Un cielo grigio, perturbato, un cielo di nuvole pesanti. Un cielo articolato in tre sipari che salgono e scendono nei diversi momenti scenici; uno in particolare, quello in proscenio, si inclina come una lama di ghigliottina. Un muro di nubi, un cielo nuvoloso che non si schiude per Lucia, “densa nube di spavento”. Unici elementi scenici due sedie, una grande per Enrico e una piccola per Lucia, e un lungo tavolo con tovaglia bianca su cui Lucia sale durante la scena della pazzia.
I costumi, ancora di Liz Ascroft, rimandano il senso delle scene e sono neri e grigi prevalentemente, con tocchi di marrone scuro, ottocenteschi nelle linee. Molto efficaci le luci di Jane Cox che però non bastano a scacciare il senso di uniformità poco significativa dell'allestimento. Luci che fanno apparire le nuvole (sempre le stesse) in modo nuovo nella consistenza e nei toni cromatici, lasciando lividi e sbiancati i protagonisti.
Non aiuta la regia di John Doyle, che rimane poco visibile, sostanzialmente priva di idee forti, limitandosi ai movimenti necessari sul palco e a una gestualità routinaria. L'unico segno registico è il rilievo dato a Normanno, sempre presente in scena come osservatore più che come parte di essa: Raimondo lo accusa di essere l'iniziatore, la causa dei tristi fatti accaduti e John Doyle lo fa stare quasi sempre in scena, appoggiato alle quinte laterali ad osservare gli altri, oppure solo durante i concertati, mentre cammina lentamente e si ferma in proscenio a guardare il pubblico.

Antonino Fogliani sceglie una tinta cupa per l'ouverture coi tamburi in evidenza che borbottano come tuoni in lontananza, perfetti con quel cielo di nuvole grigie incombenti. Il suono rimane abbastanza materico, greve a momenti, con impasti poco omogenei; i tempi vengono leggermente allargati evidenziando con maggiore efficacia nella partitura i momenti lirici.

I cantanti appaiono rigidi dal punto di vista attoriale, mentre convincono vocalmente. Claudio Sgura è un Enrico imponente nella voce e nel fisico, autorevolissimo nel grande volume sempre controllato e piegato a grande espressività, con un timbro scurissimo. Jessica Pratt è una Lucia dalla voce piena in ogni registro: corposo il centrale, sonoro il grave, squillante e sostenuto l'acuto, che le fa affrontare con tranquillità e sicurezza e mantenere a lungo le fioriture della scena della pazzia, suoni eterei ma al tempo stesso capaci di esprimere una sofferenza interiore così intensa da divenire dolore fisico, alternando il trasporto elegiaco con lo stupore per il crimine commesso, reso tangibile dal prendere manate di sangue da un pentolone, con cui si sporca il viso e la camicia bianca e con cui schizza la lunga tovaglia, poi trascinata (questo sì davvero efficace). Shalva Mukeria ha voce pura ed estesa e brilla nel finale più che nel resto della recita, trovando toni commoventi quando unisce l'amarezza del vinto alla disperazione d'amore. Leonardo Cortellazzi è un adeguato Arturo, l'unico cui è concesso un abito riccamente ricamato. Vocalmente notevole il Raimondo di Mirco Palazzi dalla lunga tunica nera che esalta gli occhi glaciali: il basso ha bel timbro e linea di canto ferma, esaltata dall'emissione omogenea e morbidissima. Luca Casalin è Normanno: canta poco ma è sempre in scena, come si diceva, un personaggio negativo, osservatore degli eventi che ha contribuito ad innescare, insomma una specie di Jago scozzese. Con loro Julie Mellor (Alisa) e il coro della Fenice, ben preparato da Claudio Marino Moretti: gli uomini con lunghi bastoni in mano paiono guerrieri masai, le donne con gonne nere e capelli raccolti paiono uscite dalla Lettera scarlatta.

Pubblico numeroso e internazionale, come sempre alla Fenice. Molti applausi, soprattutto per Jessica Pratt, ripetuti nel corso della recita e trionfali alla fine: il giovane soprano australiano ha conquistato il pubblico con acuti e sovracuti. Lo spettacolo ha un solo intervallo tra i due atti della parte seconda.

Visto il
al La Fenice di Venezia (VE)