Nel decennio tra il 1821 ed il 1831, la produzione di Walter Scott conobbe in Italia una diffusione incredibile: più di trenta tra romanzi, racconti e poemi dello scrittore scozzese vennero tradotti per il pubblico italiano che, senza distinzione di ceto sociale, li divorava dalle Alpi al Lilibeo con famelica avidità. D'altro canto, la sua fervida fantasia e lo stile narrativo lineare incontravano un certo favore anche negli ambienti letterari nostrani, fornendo spunto e materiale al dibattito sul genere del romanzo storico. Una 'querelle' vivissima, che dopo aver coinvolto la cultura europea del tempo, giungeva con qualche ritardo ad interessare quella italiana: se da un lato i classicisti più inveterati polemizzavano con tale invasione, accusando Scott di prestarsi ad una produzione di massa - il che è vero, ma pure rispondeva ad una precisa "richiesta del mercato", dall'altro quelle pagine riscuotevano il tacito consenso di autori quali Tommaseo e Manzoni. In più, finivano per stimolare analoghi esperimenti nostrani, scatenando una positiva gara d'emulazione. Quello che interessa a noi è rilevare è come i personaggi di Scott fornissero d'un tratto molto materiale narrativo inedito ai librettisti e compositori di casa nostra: abili 'artigiani' pronti a fornire al pubblico proprio ciò che esso in quel momento desiderava, punta di diamante di un sistema produttivo - quello dei teatri d'opera - quanto mai sensibile alle variazioni di gusto. Senza voler fare un elenco esaustivo, ecco dunque apparire per prima 'La donna del lago' di Tottola/Rossini (1819); poi 'Elisabetta al castello di Kenilworth' di Tottola/Donizetti (1829); quindi Il talismano', 'Il conestabile di Chester' ed 'Ivanhoe' rispettivamente di Barbieri, Gilardoni e Rossi, ma tutti intonati da Pacini nel 1829 (i primi due) e nel 1832 (il terzo). E se la figura di Ilda d'Avenel (la misteriosa Dama Bianca del racconto 'The Monastery') attrasse tra il 1824 ed il 1830 ben tre musicisti (Morlacchi, Nicolini, Pavesi), l'eroina del romanzo 'The Bride of Lammermoor' apparso nel 1819 ne intrigò qualcheduno di più, pur trattandosi di nomi oggi dimenticati: M.E. Carafa (Parigi, 1829), L. Riesk (Trieste, 1831), G. Bornancini (Venezia, 1833), A. Mazzuccato (Padova, 1834). Per ultimi, vi si accostarono Cammarano e Donizetti, i quali fecero piazza pulita dei precedenti tentativi consegnando nel 1835 al pubblico napoletano il grande capolavoro che tutti ben conosciamo. Che poi la loro 'Lucia di Lammermoor' segua meno fedelmente degli altri il lavoro di Scott, poco importa: quello che conta è che il testo regge dal punto di vista funzionale e drammatico, e che la musica lo segue sempre ispirata e coerente, con la bellezza dei capolavori assoluti. Rispettando le convenzioni teatrali del tempo, senza farsene asservire. E' per questo che desta fastidio il persistere di certi tagli ingiustificabili - non solo qualche battuta qua, qualche battuta là, cesura avvertibile anche in "Verranno a te sull'aure" - ma anche di tratti interi, come il taglio della 'tirata' di Raimondo nei confronti di Normanno, alla fine della scena sesta dell'Atto II°. Ma del tutto deplorevole è soprattutto l'omissione della scena della Torre di Wolferag, con il suo l'incandescente scontro verbale tra Edgardo ed Enrico. A parte la perdita del materiale musicale, come giustificare altrimenti un Edgardo che s'aggiri, nell'alba gelida, tra le tombe dei Ravenswood?
Quante lacune in questa 'Lucia' che ha chiuso la stagione 2010/2011 del Verdi di Trieste! Intanto la scelta della sorpassata edizione Kalmus, invece che dell'edizione critica Dotto/Parker che ritengo ormai d'obbligo. Poi i famigerati tagli di cui sopra. Poi una direzione - quella di Julian Kovatchev - greve e approssimativa, con sonorità spinte all'eccesso, condotta con mano pesante, senza fantasia né varietà di colori. Né abbandono lirico, né bei rubati, né mezzetinte, né gioco di dinamiche; e la nave dell'orchestra del Verdi che ondeggiava perigliosamente, senza la guida d'un bravo nocchiero. Le scenografie di Pier Paolo Bisleri consistevano quasi unicamente in un vitreo pavimento roccioso, che impacciava i movimenti di tutti; intorno altissime e nere pareti lignee, e poco altro. Anche la festa di nozze si svolgeva curiosamente all'aperto, in una landa scura e desolata; curiosamente gli invitati, con i loro soprabiti e pastrani, parevano viaggiatori in attesa della diligenza. Gli abiti disegnati con abilità da Giuseppe Patella spostavano la vicenda in pieno Ottocento, cosa che non disturbava affatto; la regia di Giulio Ciabatti imponeva ora una staticità incomprensibile ora una frenesia generale, il che alla fine ingenerava un certo fastidio.
Non troppa soddisfazione anche dai cantanti. Giorgio Cauduro era un Enrico ferrigno ed eccitato, arrogante piuttosto che altezzoso ed implacabile. Poco elegante nel legato e con molte cose da rifinire nel fraseggio complessivo, la sua voce però resta importante, e il timbro formidabile. Silvia Dalla Benetta è una eroina commovente nel tratto recitativo, non v'è dubbio, ma non interessante dal lato vocale. Non sa ricreare una Lucia da vero soprano lirico-leggero come la Sills o la Devia, inclinazione suggerita dalla sua vocalità; ma allo stesso tempo non mi pare in grado di estrinsecare l'altro lato del personaggio, quello più cupo e tragico, sull'esempio della Deutekom o della Scotto. Aquiles Machado risultava un Edgardo vocalmente elettrizzante, per quel timbro liquido e lucente, ma mi pareva un tantino tepido come personaggio: poco virile insomma, con qualche tendenza al piagnisteo. Più che efficiente, e con il giusto accoramento religioso, il Raimondo di Giovanni Furlanetto. Bene il Normanno di Francesco Piccoli, l'Alisa di Annina Kaschenz e l'Arturo di Gianluca Bocchini. Corretti gli interventi del Coro del Verdi.