L’Opera di Roma compie un sentito tributo alla memoria di Luca Ronconi, da poco scomparso, mettendo in scena la Lucia di Lammermoor che lui aveva pensato e che si apprestava a iniziare in prova. All’annuncio iniziale della dedica, il Costanzi scoppia in un lungo e caloroso applauso per uno dei più grandi maestri del teatro italiano, innovatore e testimone di una stagione irripetibile.
L’apparato scenotecnico era completato quando Ronconi è mancato e aveva avuto la sua approvazione. I sontuosi costumi di Gabriele Mayer sono rigorosamente storici, primo Ottocento ma con memoria di tardo Rinascimento, declinati in nero e grigio tranne l’abito da sposa bianco poi schizzato di sangue. L’asciutta scena di Margherita Palli utilizza legno, stoffa e ringhiere di ferro, mescolando passato e presente, e soprattutto dando il senso alla regia: le piccole porte e il ballatoio del primo quadro altro non sono che un manicomio (nel prosieguo è tutto più evidente con le grate alle finestre e le persone recluse, evidentemente malati mentali). Una scena bianca le cui pareti sono costituite da leggeri veli di stoffa. Una scena mobile che si sposta di lato oppure avanza davanti agli occhi degli spettatori. Una scena in cui sono presenti le lampade a filo, segno distintivo di tante regie ronconiane a rendere interni asfittici e allucinati. Perfette le luci di Gianni Mantovanini a suggerire il senso livido e glaciale di un percorso mentale disturbato. Ugo Tessitore, storico collaboratore di Ronconi, ha realizzato la regia nel modo più fedele possibile sulle indicazioni lasciate. Non è chiaro se Ronconi sostenga che la malattia mentale di Lucia sia il frutto delle costrizioni dell’ambiente e della famiglia o piuttosto una progressione fisiologica: certo è che elimina dal suo spettacolo ogni riferimento romantico e tenebroso per presentare una donna malata e sola, vittima fragile di una società proterva e arrogante, che non ha alternative se non arrendersi e lasciarsi trascinare. In particolare la prima aria di Lucia, che ammanta tutta la vicenda di una decisiva luce spettrale, qui è accompagnata dal riflesso sulla parete dell’acqua della fontana, un balenìo quasi infastidente che sembra una traccia di encefalogramma ma in linea con il taglio registico della pazzia latente. I movimenti in scena sono pochi e funzionali al libretto e la gestualità dei protagonisti è improntata a un realismo contenuto ed essenziale ai limiti della rarefazione.
Se le scelte registiche sono radicali nel dare un taglio inedito all’opera, la direzione di Roberto Abbado è assai rispettosa della tradizione e privilegia toni romantici, tempestosi e tenebrosi: dall’iniziale rullo di tamburo all’uso della glassarmonica nella scena della pazzia che connota tutto di sinistri bagliori. Si sono apprezzati in modo particolare il gesto elegante e la cura dei tempi, saettanti quando necessario o ampi e distesi quando possibile anche per favorire il canto, come nello spettacolare sestetto del secondo atto. Grande mestiere, il suo. E notevole risultato.
Jessica Pratt è una meraviglia di canto sul fiato coi legati purissimi (Verranno a te sull’aure in punta di labbra), le mezzevoci espressive e sonore, i suoni limpidi e trasparenti rinforzati anche nella zona alta della partitura, il timbro cristallino e puro, la linea sempre tesa e vibrante al punto da restituire alle colorature della scena della pazzia il loro vero senso: il vuoto della ragione che aliena la mente diviene concretamente percepibile con la coloratura che scompiglia la linea vocale del canto, il girovagare a vuoto di una mente persa nella pazzia in bilico tra dolcissimi abbandoni d’amore e allucinazioni febbrili, qui assai efficace per la gestualità e le movenze che l’australiana, a differenza di altre prove, mette in pratica con convinzione e resa attoriale ottima (anche per il ruolo fondamentale che hanno nel terz’atto le comparse dietro le grate). Registicamente è molto efficace l’ingresso nel primo atto: Lucia cammina guardando avanti, si ferma, si volta con la mano appoggiata alla ringhiera, attratta verso Edgardo ma trattenuta da fili invisibili da Enrico. Ma per la comprensione del ruolo è determinante l’apertura del secondo atto, qui efficacemente saldato al primo: Lucia è già in gabbia, immobile, quando sente il suo nome si scuote come se si destasse all’improvviso e scende la scala di ferro quasi in trance.
Stefano Secco ha grande voce, timbro bello e generoso e padroneggia il registro acuto (ma anche gli altri) alla perfezione; il suo Edgardo, per scelta del regista, è poco elegiaco, privilegiando un romantico fervore; vocalmente il tenore gioca con gli armonici che nelle aperture melodiche di grande respiro forniscono colori e vibrazioni che scavano nelle pieghe della partitura: la voce è piena e ricca di sentimenti che si modellano perfettamente al verso, scolpito con grande cura.
Marco Caria, di fronte a due cantanti di prima grandezza, lavora su accenti e sfumature cercando di evitare lo stereotipo della prestazione muscolare spesso inevitabile in Enrico. Corretti Carlo Cigni (Raimondo, qui spesso apertamente contrapposto al Normanno di Andrea Giovannini), Alessandro Liberatore (Arturo) e Simge Büyükedes (Alisa). Coro ben preparato da Roberto Gabbiani.
Teatro gremito, vivo successo con molti applausi anche a scena aperta e un vero trionfo per Jessica Pratt, osannata dopo la scena della pazzia. Nel programma di sala vengono riportate, con date e dati, le regia di Luca Ronconi per il teatro dell’Opera di Roma, titoli sempre rari e intriganti.