Dante, riprendendo la mitologia greca, immagina la zona più profonda dell'Inferno ricoperta da un fiume ghiacciato. "Io gelo e ardo" canta Lucia, soccombendo alle imposte nozze. Per il regista Francesco Bellotto la pazzia è l'artica dannazione dei vivi. Glaciale solitudine, tra pietre e spade fagocitate dalla brina, che ha cristallizzato le passioni in una realtà straniante. Dal cielo sempre più livido (luci di Claudio Schmid), come in un inverno post atomico, è scesa fitta la neve a ricoprire le vittime e raggelare i superstiti: gli abitanti di Ravenswood e Lammermoor sono dei sopravvissuti alle cinquantennali battaglie che ne hanno smembrato i corpi e disgregato le civiltà.
Uno spunto/tributo a Polański, rielaborato, ha funto da filo conduttore. La mano mozzata da un cadavere ha dato gli anelli con cui Lucia e Edgardo si sono scambiati la vana promessa, è divenuta feticcio della follia di Lucia, ha porto il ferro con il quale l'infelice innamorato si è dato la morte.
L'ancella/strega Alisa ha evocato antichi fantasmi sovrapponendoli alle figure del presente: lei è stata la manovratrice del volano del destino, dal moto circolare magico, trasognato, inquietante, omnicomprensivo. Hanno ruotato inesorabili le algide vetrate industriali e le rovine di cemento, dai tondini d'armatura protesi verso l'alto come rugginose, imploranti, scheletriche mani. La fontana, ammutolita dal ghiaccio, con le sembianze di una statua di Canova ha riecheggiato la "precisione neoclassica" strutturale della tessitura donizettiana, come ha dichiarato lo stesso Bellotto, la cui preparazione musicale emerge in ogni suo lavoro. Un "pastiche", di inusitata omogeneità, architettonico (scene di Angelo Sala) e stilistico dei costumi (di Alfredo Corno) di svariate epoche, a raccontare un'allucinazione scorporata dal contesto storico e avulsa dall'attualità.
Star di questo allestimento si è rivelata l'edizione critica (di Gabriele Dotto e Roger Parker) attinta alla partitura autografa di Donizetti (esposta in una bacheca nel foyer). Sono state soppresse le aggiunte dovute alla prassi esecutiva posteriore, reinseriti alcuni strumenti d'epoca tra cui l'armonica a bicchieri (dal suono trasparente come il ghiaccio), ripristinate le originarie tonalità, più acute rispetto alle tradizionali. Fattore quest'ultimo che ha richiesto un cast giovane e fresco, pur se complessivamente poco avvezzo alle "malizie del mestiere".
Bianca Tognocchi possiede voce chiara ed emissione garbata, acuti puliti, intonazione perfetta; ha assoggettato le agilità all'espressività, delineando un'eroina delicata e fragile ma granitica nel sentimento, come suggerito dalla roccia cubica posta al centro della scena. Raffaele Abete è stato un Edgardo quasi Romeo, adolescenziale, per così descrivere la recitazione titubante; ha svolto una prova discontinua, in crescendo, tra giovanili ingenuità e notevoli, applaudite vette. Una certezza, il baritono Christian Senn, dal fraseggio proteso a motivare gli impeti di Enrico come fraterno affetto; vasta gamma coloristica in una linea stilistica omogenea ed elegante. Gabriele Sagona ha vestito i panni di Raimondo di misurata incisività e indiscutibile classe. Riccardo Gatto è stato estremamente convincente nel tratteggiare Arturo ricercatamente sgradevole e tracotante; possiede grandi mezzi e ancor più grandi potenzialità, che padroneggia non ancora al meglio. Interessante la vocalità di Elisa Maffi, Alisa, egregia nell'impegnativo compito affidatole dalla regia. Francesco Cortinovis ha declamato la parte di Normanno. Ottimo il Coro diretto da Fabio Tartari, superata un'incertezza iniziale, coeso e di lodevole morbidezza. Dopo l'esordio impegnativo per la quadratura tra buca e palco, Roberto Tolomelli ha dettato un primo atto intimistico, ha trovato nel prosieguo accenti impetuosi per poi concludere nel tripudio di colori scaturito dallo sfavillante dialogo strumentale.