C'è voluto un secolo e mezzo perché Lucrezia Borgia ritornasse al Teatro Verdi di Trieste dopo l'ultima apparizione del 1871. E questo nonostante l'onda della Donizetti Renaissence.
C'è voluto un secolo e mezzo perché Lucrezia Borgia ritornasse al Teatro Verdi di Trieste dopo l'ultima apparizione del 1871. E questo nonostante l'onda della Donizetti Renaissence l'abbia già da sei decenni riportata in auge, rivelando un titolo fra i più interessanti del compositore bergamasco, per lungo tempo assai apprezzato. Tanto che la sala triestina enumera ben sette apparizioni ottocentesche, la prima delle quali, nel 1838, ebbe quale protagonista Henriette Méric-Lalande.
Cioè il soprano che aveva creato la parte di Lucrezia alla Scala nel 1833, ottenendo da Donizetti un epilogo d'opera ad personam. La seconda, nel 1840, si avvaleva del Gennaro di Napoleone Moriani – il “tenore della bella morte” - che a sua volta gli aveva commissionato la cantilena finale “Madre se ognor lontano”. La quarta, nel 1846, allineava il tenore Nicola Ivanoff, per cui Donizetti scrisse la trasognata “T'amo qual s'ama un angelo”. Ed in ben tre edizioni (1846, 1848, 1853) si esibiva la più rinomata Lucrezia dell'epoca, vale a dire Marianna Barbieri-Nini. Un trionfo di celebrità.
Tanti teatri per questo spettacolo
Lo spettacolo presentato ora al Teatro Verdi è frutto d'una ampia coproduzione, già presentato in chiusura del Donizetti Festival 2019 e di seguito a Reggio Emilia. Poi lo vedremo altrove. La scenografia unica, nettamente minimalistica di Alberto Beltrame delinea un paesaggio dilatato, tetro e desolato; un dorato soffitto a cassettoni ne occupa una piccola porzione, voltandosi diviene il muro che riporta scolpito il nome dei Borgia. Null'altro o quasi in scena. La regia di Andrea Bernard asseconda a dovere il fluire del racconto e della musica, mostrandosi scabra, addensata, lineare; ma è forse un po' appesantita di estrose simbologie.
Una figura nuda e insanguinata rappresenta la morte che attende le sue ignare vittime, la Borgia viene descritta alle prime battute orchestrali come madre amorevole, cui una ieratica figura di pontefice che riapparirà alla fine – il padre Alessandro VI, ovviamente – rapisce il figlio. E se il suo latte materno sarà l'antidoto al veleno, essa si svenerà trafiggendo quelle stesse mammelle che diedero il primo nutrimento a Gennaro morente tra le sue braccia. Costumi di Elena Beccaro, corvini per tutti tranne che per Lucrezia, ammantata d'abiti d'un giallo squillante. Il colore della menzogna e del tradimento.
Concertazione energica, ma priva di fantasia
La versione prescelta è quella di Parigi 1840. La concertazione di Roberto Gianola imposta e domina bene l'insieme – solisti e orchestra viaggiano affiatati – ma pecca di una certa uniformità e di troppa stringatezza. Manca cioè l'abbandono alla narrazione, e scarseggia quella varia paletta di colori e di sfumature, quella riuscita amalgama di situazioni emotive – alternanza di abbandoni sentimentali, sfoghi d'allegria, scoppi d'ira, sorda gelosia - che ben caratterizzano libretto e partitura. Costruendo la Lucrezia di Carmela Remigio la regia ha calcato un po' troppo la mano, facendone una donna dall'eccitata isteria; e ne ha risentito l'interpretazione vocale che – al di là dell'indubbia aderenza stilistica, e della piena padronanza tecnica – appare come fuori misura, ed esageratamente eccitata. A discapito della necessaria resa di quel côté elegiaco, tormentato e melanconico celato in questa figura bivalente, altrove sprezzante ed crudele.Stefan Pop è un Gennaro stilisticamente adeguato, dall'impeto scattante, dal timbro solare e lucente, dall'emissione generosa, ricca di vibrazioni. Ma come personaggio in sé, pare rimanga un po' nel vago. Dongo Khim realizza con solide basi e buona aderenza allo spirito belcantistico un roccioso, subdolo Alfonso; Cecilia Molinari porta in scena un Maffio dai tratti eleganti e sciolti, convincente sulla scena benché la voce in sé non brilli per corpo e struttura. Comprimariato ben affiatato: Motoharu Takei (Jeppo), Rustem Eminov (Apostolo), Dario Giorgelè (Ascanio), Andrea Schifaudo (Rustighello), Dax Velenich (Vitellozzo), Giuliano Pelizon (Gubetta). Secondo cast con Lidia Fridman, Deniz Leone, Abramo Rosalen, Veta Pilipenko.