Les femmes, la folie, la ville, les mots.
Ma soprattutto queste ultime, les mots, le Parole. Sono sia parole con la p minuscola che con la P maiuscola, quelle di Leslie Kaplan e del suo Luisa è pazza, e non a caso le prime parole pronunciate da Frédérique Loliée sono "Mi hai tradita, hai preso le mie parole...!"
Al teatro San Ferdinando giunge il progetto co-prodotto dal Teatro Stabile di Napoli insieme con Theâtre des Lucioles di Rennes e Fondation d’Art Arteria di Varsavia: in una scena che le attende con uno spoglio, grandissimo pannello bianco, lei e Patrizia Romeo salgono dalla platea, e parlano.
Si lanciano parole usandole come armi e come scudi, si contrastano e si auto-contraddicono, in discorsi spesso inversi ed in continua perdita di riferimento dialogico, e fino a far sospettare dell'esistenza di una forza propria ed autonoma delle parole che usa loro come meri strumenti, utensili per materializzarsi.
Scorrono immagini di gente che si affretta a fare non si sa cosa nè perchè, tra alcuni refrain che ritornano ossessivamente ("Ho avuto una infanzia difficile...") ed una scena che si trasforma in squallidi palazzotti da 167 fra cui le due entrano, escono e sostano, facendo prevalere dissonanze e discordie, fra le quali suona solo sporadicamente il Luisa è pazza in sottofondo, perché Luisa non si vede mai, è come una terza sagoma ideale su cui appendere le parole, mentre le stesse parole non sembrano appartenere nemmeno a loro, se le passano come in un gioco dadaista, si trasformano da sole ("Nel tuo parlare dici la verità per mentire meglio"). C'è un sovvertimento della grammatica esistenziale, delle regole in codice e dei punti di riferimento -anche in versione rap- che spazia culturalmente da Feuerbach allo Spinoza del Deus sive natura ("Tutta quella civiltà, cultura, etica, per arrivare così..."), lasciando un appiglio soltanto per quella che potrebbe sembrare una comunicazione irrinunciabile benché assurda: loro due non possono evitare di comunicare, e noi non possiamo evitare di rammentare il significato più letterale delle comunicazione, ovvero quello di mettere qualcosa in comune.
Fuori e dentro le pareti di una casa in cui intrufolarsi nella sua non-quotidianità, come quando Patrizia Romeo si fa lo shampoo in una delle stanze, ed in un ritmo incessante sostenuto con una precisione davvero ammirevole, risaltano alcune perle come la logica del nepotismo spiegata con l'esempio del presidente francese, come la questione se Dio sia "di origine straniera", ed alcuni scambi all'arma bianca ("Dici qualunque cosa che ti passa per la testa: sei proprio depressa..." - "Anche quando sei con qualcuno, tu parli da sola"): solo su Dio si accapigliano davvero e fisicamente, ma sempre per risalire e rimanere poi su un piano dialettico, ed infine ironico quando si incentra su un argomento come quello della femminilità, che però, per le sue implicazioni proprio sul piano del linguaggio e dei codici di riferimento, ci sarebbe piaciuto vedere sviscerato in maniera più ampia ("La prova che la donna non è una gran cosa, è che Dio non si è sposato...").
Contrappunto ideale, e momento di maggiore suggestione, perciò, non può che essere il suo opposto: il silenzio, un silenzio che si avviluppa intorno e dentro ad un lungo abbraccio fra le due donne, l'una in piedi e l'altra aggrappata, stretto fra le nuvole.
Nel finale, oltre alla Parola, si confonde anche il Suono: un crepitio indistinto e fastidioso estende il concetto della mancanza di Forma anche all'onda sonora, fino a dissolversi tutto, nel buio.