«Il maestro [...] ha voluto tentare il genere campestre a fronte dell’eroico, l’innocenza dei villici di riscontro alla superbia baronale, un amor contrastato in fine, cui la morte mette compimento toccando la corda quasi mai fallace della pietà e del terrore!». Con questi acuti rilievi Vincenzo Torelli salutava sulla rivista «L’omnibus» la prima rappresentazione di Luisa Miller, melodramma tragico in tre atti scritto da Verdi nel 1849 espressamente per il Teatro di San Carlo di Napoli su sollecitazione di Salvadore Cammarano, che fornì anche l’ampolloso ma stimolantissimo libretto. Torelli coglieva bene la peculiare commistione di tinte che caratterizza la partitura. L’avvio, come ha messo in rilievo Emanuele Senici, fa pensare all’atmosfera tipica dell’opera semiseria, con la convenzionale associazione tra l’eroina semplice e pura e l’ambientazione alpina (che Cammarano sostituisce alla scena urbana della fonte schilleriana). Il seguito della vicenda, però, non riserva né premi alla virtù, né pene ai rei: la prepotenza e l’inganno si intrecciano in un vortice sinistro che attira nelle sue spire i due innamorati e li trascina inesorabilmente verso la morte.
Il nuovo allestimento del massimo partenopeo, che ripropone dopo dieci anni esatti di assenza la creazione verdiana, sceglie un solo colore con il quale avvolgere la storia di Luisa e Rodolfo: il grigio scurissimo dei monumentali pannelli disegnati dallo scenografo Sergio Tramonti, che nel corso della rappresentazione diventano fondali, quinte, montagna, foresta e parete scorrendo a vista e mutando disposizione e inclinazione. Le pareti incombenti si vanno sempre più restringendo, come a rappresentare la morsa di un destino ineluttabile che intrappola la protagonista senza possibilità di scampo. Al centro resta sempre un letto che assume valenze simboliche diverse: è culla che accoglie il sonno innocente e ignaro di Luisa all’inizio dell’azione; è promessa di suggello nuziale per l’amore che ella nutre verso il figlio del conte; ma poi è anche luogo dello stupro da parte del viscido Wurm, altare per le vane invocazioni alla pietà celeste e, infine, tomba lugubre e sconnessa che accoglie i corpi senza vita dei giovani amanti.
Per il resto appare priva di grande idee la regia di Andrea De Rosa, che sceglie di collocare la vicenda in un contesto camorristico generico e sfocato (all’ambientazione contemporanea si adeguano i costumi ideati da Alessandro Lai). Il movimento dei personaggi resta piuttosto convenzionale e talvolta incoerente rispetto all’azione, con permanenze ingiustificate o entrate anticipate che non giovano alla comprensione di quanto va accadendo. Una presenza muta piantona costantemente la scena: è una donna matura che, come un’icona materna, assiste in silenzio e in disparte prima alle fugaci gioie e poi alle laceranti sofferenze di Luisa. Periodici crolli di calcinacci sembrano alludere alla fragilità delle speranze e dei costrutti umani di fronte ai colpi inesorabili e beffardi della sorte. Sul podio, Daniele Rustioni si fa apprezzare per il gesto generoso e sicuro, che comunica continue scosse elettriche alla compagine sancarliana senza però perdere di vista la cura del dettaglio e la precisione del fraseggio. Il piglio vigoroso del giovane ma già applauditissimo direttore milanese si manifesta pienamente già nella sinfonia dell’opera, una delle più belle e sapienti nel catalogo verdiano. L’orchestra risponde con prontezza e offre una prestazione di qualità, insieme al coro guidato da Marco Faelli.
Il cast vocale si attesta complessivamente su livelli elevati. Elena Mosuc riesce a mettere in luce i molteplici aspetti della figura di Luisa e risulta convincente sia nel canto virtuosistico, sia nella resa drammatica del personaggio. Buona è anche l’interpretazione di Rodolfo fornita da Giorgio Berrugi, che si distingue per timbro e volume. Ottimo il Miller padre dell’ucraino Vitaliy Bilyy, capace di riempire l’ampio palcoscenico sancarliano con la sua voce calda e possente. Nino Surguladze, che veste i panni di Federica, rivela un buon temperamento ma fornisce una prova piuttosto disomogenea. Dopo un avvio indeciso e opaco, il conte di Walter di István Kovács si fa più efficace nel canto e nel gesto lungo il corso della performance. Marco Spotti è perfettamente a proprio agio nel ruolo di Wurm, del quale rende con sapienza la sinistra malvagità. Una luce speciale risplende sui brevi interventi di Michela Antenucci, che dà verità di vita e bellezza di suono alla trepidazione di Laura. Completa il cast Nino Mennella (un contadino).