La pena di morte è giusta? O non è utile? Due definizioni apparentemente simili ma profondamente diverse. Tratto dall’omonimo romanzo di Victor Hugo, pubblicato in forma anonima del 1829, questo spettacolo di e con Luca Fusi offre allo spettatore molto più di un mero spunto di riflessione.
Argomento ancora attualissimo, la pena di morte suscitava dibattiti anche ai tempi di Hugo. Quando il primo vero abolizionista , Cesare Beccaria, scrisse il suo trattato nel 1764, “Dei delitti e delle pene”, molti pensatori illustri ne confutarono le teorie. Kant e Hegel asserivano che la pena di morte aveva una funzione retributiva: si elimina un criminale dalla società e si ristabilisce ordine ed equilibrio. Come l'inferno dantesco: chi uccide sia ucciso!
Colpito e influenzato dall’opera del Beccaria di un secolo prima e memore delle migliaia di teste tagliate durante la Rivoluzione Francese e il Terrore, Hugo si schiera invece dalla parte del condannato. Aborra la pubblicizzazione della morte e anche anni dopo, ne “I Miserabili” scrive: “si può essere indifferenti verso la pena di morte e non pronunciarsi, non dire né si né no, finché non si è visto una ghigliottina”.“L’ultimo giorno di un condannato a morte” ha già nel titolo l’essenza della pièce. Di questo condannato non si sa nulla, né l’età, né il nome, né il crimine commesso. Una sorta di Milite Ignoto del patibolo, rappresentante della massa dei dead men walking. Il condannato (Luca Fusi) si dimena nell’angoscia della sua condizione e vuole renderne partecipi i posteri, lasciandone traccia scritta. Agitato e violentemente umorale, scrive, disperato e forsennato. Si rende conto del suo destino, ne rifugge il pensiero, accarezza la speranza della grazia. Si guarda intorno: è lui il protagonista del cinema della morte. I benpensanti, i carcerieri, il popolo, sono tutti lì a trattarlo con deferenza, a guardarlo con curiosità, bestia da circo in gabbia in attesa dell’esecuzione, pronti a scegliere il posto migliore per veder rotolare la sua testa. Costantemente conscio dell’approssimarsi alla fine, il condannato lotta contro il tempo, ruba secondi, morde l’aria. Tenta l’inganno, proponendo al secondino il gioco del cambio d’abito. Il condannato arringa, interprete della voce di Hugo, contro la pena di morte: la punizione la può dare solo Dio, la vendetta è atto dell’uomo. Si dispera sulla crudeltà del ricorso, l’inutile prolungamento dell’agonia; si domanda, tremante, se il trapasso sia doloroso, se è vero, come dicono, che la ghigliottina sia una “fine dolce”.
Nei momenti di buio e di silenzio dei suoi pensieri, tuona la voce dell’abolizionista Beccaria (Vladimir Todisco Grande), lucido grillo parlante ottocentesco ancora così attuale. Hugo e Beccaria, Fusi e Todisco Grande, quattro voci dimezzate si rivolgono alla pena di morte alternandosi la luce della ribalta, mentre Luca Rampini ne sottolinea le parole con intense note al piano. Seppur si tratti di brani estratti, il testo non perde continuità anzi, il risultato è un fluido scorrere di emozioni. Indovinato il nero totale come soluzione scenica e costumistica, sapientemente alternato a sprazzi di luce sulla voce narrante in corrispondenza dell’arringa difensiva.
Malum passionis e malum actionis: la corrispondenza armonica ed equilibrata tra reato e pena. Dai tempi del razionale e lucido Beccaria, passando per Victor Hugo, così attento a cogliere i valori e le sfumature dell’animo umano, fino ai giorni nostri. Non è cambiato nulla. I sentimenti dei residenti del braccio della morte sono sempre gli stessi. Il dibattito è (ancora) aperto. Da vedere.
Milano, teatro Arsenale