Mentre gli spettatori, poco alla volta, si radunano senza fretta a riempire platea e galleria, il protagonista è già in scena. Alcuni specchi, alle sue spalle, in una scenografia curata fin nei dettagli. Uno per uno, l’uomo esamina brevemente alcuni documenti, poi li lascia cadere. A giudicare dalla mole di fogli a terra, è lì da molto tempo. Il protagonista, interpretato con maestria da Luciano Roman, è infatti Raul Gardini: non è tipo che ami attendere o starsene con le mani in mano. Nato contadino, è divenuto uno degli uomini più ricchi e più potenti d’Italia. Non è il personaggio di un racconto, è l’indiscusso mattatore di una storia, una storia vera. Un pezzo della storia d’Italia. Ormai lontana, nel tempo: gli anni della tangente Enimont, al centro di Tangentopoli e della fine della Prima Repubblica. Eppure così vicina, così presente, nei contenuti. “Non ci sono più innocenti, i peccati sono collettivi”: ecco la sentenza, greve, che colpisce come una frustata. Ma davvero ci si divide soltanto rispetto all’assunzione di responsabilità delle proprie azioni, davvero a distinguere gli uomini sono rimaste soltanto l’abilità, la spregiudicatezza, il coraggio, la voglia di rischiare tutto, anche se stessi?
Forse no. Gardini è solo in scena, ma fuori campo, possiamo sentire una voce, la voce di un’ombra. Non è solida al punto da farsi carne, ma presente quanto basta per non poter essere ignorata. L’ombra offre a chi vuol ascoltarle le parole di chi non ha volto, o forse, più semplicemente, non ha angoscia o desiderio di mostrarlo e mostrarsi. Il viso dei molti che, ciascuno singolarmente, un giorno alla volta, non inseguono gloria, ma dignità. Quelli che lo stesso Gardini chiama, sprezzante “polvere della storia”. Non abbastanza grandi e forti da essere notati: condannati all’invidia, pensa. Abbastanza lievi però da levarsi col vento, quando soffia, fino a riempire il cielo di un turbinio di speranze.