Prosa
L'ULTIMO NASTRO DI KRAPP

Una impeccabile messinscena

Una impeccabile messinscena

Come far capire al lettore non già il significato ma l'esperienza che assistere alla messinscena de L'ultimo nastro di Krapp rappresenta per lo spettatore? Tutto succede nell'arco di pochissimo tempo, tra moltissime pause e silenzi. In un ambiente buio dal quale emerge, illuminata, solo una scrivania il vecchio Krapp ascolta un nastro magnetico (il modello a bobina degli anni 60), che ha inciso, catalogato e inscatolato, trent'anni prima (nel nastro dice di avere 39 anni adesso ne ha dunque 69). Krapp ha il volto bianchissimo, il naso paonazzo, è goloso di banane nonostante la sua stitichezza (se ne lamenta già nel nastro inciso 30 anni prima). E' prossimo alla fine, sordo e ci vede poco (così specifica Beckett nelle didascalie). Questi dettagli sono minuziosamente descritti da Beckett che riempie due pagine fitte di didascalie, sulle 11 totali del monologo prima che Krapp parli. L'elemento essenziale è la calma, il tempo che passa, la mancanza di fretta. Krapp riflette, mangia due banane, consulta un dizionario. maneggia il nastro con perizia, lo manda indietro, per risentire parti che reputa interessanti, o avanti, per saltare parti che non vuole ascoltare.
Nel nastro che ascolta apprendiamo della morte di sua madre, della decisione di troncare una storia d'amore. Tanti dettagli sui quali medita, interrompendo l'ascolto, o commenta, con delle piccole risate. Poi toglie la bobina e su una nuova incide il diario del presente, vanta la vedita di 17 copie di un suo libro, commenta quel cretino che era egli stesso 30 anni prima. Poi interrompe la registrazione e torna ad ascoltare quella di 30 anni prima, tornando la momento in cui racconta di quando sta ancora con la donna che ama, che ha lasciato per dedicarsi alla sua arte, l'orecchio sul seno di lei, nel silenzio del mondo.
Robert Wilson incarna lo spirito di uomo prossimo alla fine le cui velleità artistiche lo hanno condotto alla solitudine e alla sconfitta in maniera splendida, con tenerezza. Nel volto coperto di biacca, a metà tra una maschera tragica e il personaggio di un film tedesco degli anni 20, nell'incedere incerto mentre si reca altrove per bere, nei commenti che fa a quanto ascolta del se stesso di 30 anni prima, Wilson è un Krapp perfettamente in equilibrio tra l'umanità devastante della vecchiaia e l'egoismo individualista dell'uomo pieno di speranze (disattese) di tanti anni prima.
Per sua stessa ammissione Wilson trova nel testo, chiuso e pensato fin nei dettagli della scenografia, uno spazio in cui poter esprimere se stesso, come riporta nelle note di regia. E pur rispettando fedelmente il testo di Beckett Wilson aggiunge una sottile ironia, l'ironia di chi, sopravvissuto a se stesso, capisce di aver perso per sempre, rinunciando a quella donna, la possibilità di essere felice. E questo lo capisce adesso, quando è prossimo alla fine, quando non importa più. O, meglio, quando la fine inevitabile rende superfluo ogni dolore, ogni rammarico, ogni rimorso. Krapp è talmente sconfitto che non può nemmeno permettersi il rimorso, che rimane tutto negli attimi di pausa, di attesa della morte, nell'ostinazione a non rinunciare alle sue abitudini. Krapp sa cosa ha perso ma ormai non importa e attende la fine, nel finale del monologo, mentre il nastro registrato trent'anni prima scorre privo ormai di suoni.
Molti gli chi letterari con cui questo monologo si confronta. Si pensi alla memoria ricercata nella vecchiaia in Proust la cui ricostruzione costituisce un modo per l'uomo di elevarsi, mentre la memoria di Krapp, relegata a un mezzo meccanico, non ricostruita dal ricordo nel presente ma ri-appresa mentre Krapp riascolta quei vecchi nastri, è una memoria della sconfitta, della disfatta, della fine imminente. Sottratta alla sua funzione primaria che è quella di ricordare nel presente della vecchiaia quel che non c'è più, la memoria magnetica di Krapp è solamente il segno di un errore irredimibile.
Tutto questo non viene detto dalle parole di Krapp nel monologo, ma mostrato dallo scarto tra quelle parole e il comportamento dell'uomo stesso. Per cui la grandezza di Beckett non sta solamente nel testo ma nella sua messinscena così minuziosamente prevista nei dettagli in didascalia perchè non potrebbe essere altrimenti per restituire ieri come oggi lo stesso portato universale dell'individuo Krapp.
Quando debuttò nel 1959 il testo preconizzava un futuro ancora da venire, il registratore o magnetofono era un'invenzione dell'ultima ora e collocava l'azione nel futuro, come ribadito nelle didascalie. Un futuro senza felicità che poteva essere trovata forse, ancora, nel presente.
Oggi quel futuro sembra si sia fatto presente, e la condizione dell'uomo di cui Krapp si fa simbolo, l'isolamento per velleità individualistiche mostrato nelle sue conseguenze future, è talmente attuale da non costituire più per lo spettatore un allarme, una inquietudine per il futuro ma una dolorosa constatazione del presente. E' già tutto successo, tutto deciso, tutto accaduto e tutto quello che la tecnologia ci permette di fare è saltare le parti del nostro passato che non ci piacciono, o riascoltare quelle più care, ma non può aiutarci a procrastinare la fine perchè quella fine è dolorosamente qui.
 

Visto il 09-10-2010
al Valle Occupato di Roma (RM)