Lirica
LULU

Ascesa e caduta di Lulu

Ascesa e caduta di Lulu
Milano, teatro alla Scala, “Lulu” di Alban Berg ASCESA E CADUTA DI LULU Lulu, capolavoro incompiuto di Alban Berg, fu ricavata da due drammi di Franz Wedekind (Erdgeist, 1895 e Die Büchse der Pandora, 1904, che avevano fatto scalpore per il loro violento e tragico significato di accusa contro la società borghese del tempo) e propone la problematica esaltazione dell'eterno feminino nei suoi aspetti istintuale (animalesco) e socialmente condizionato. Andata in scena per la prima volta a Zurigo nel 1937, due anni dopo la scomparsa del compositore austriaco, in quella occasione furono eseguiti solo i primi due atti, perchè Berg aveva lascito incompiuta parte della strumentazione e alcuni dettagli della composizione del terzo atto, il quale potè essere rappresentato solo nel 1979, sistemato e completato da Friedrich Cerha dopo la morte della vedova del compositore. In quell'anno andò in scena alla Scala, tre mesi dopo la prima assoluta della partitura compiuta a Parigi. Da allora mai più. E non poteva che tornare in questa ottima stagione di prestigiose bacchette e regie di lusso, una coproduzione internazionale affidata a Daniele Gatti e Peter Stein. Lulu è divenuta nel Novecento il mito di una sensualità femminile non controllata (e forse non consapevole, non coltivata, cioè innata e spontanea), a-morale non per scelta ma per nascita e natura. Tutti cadono ai suoi piedi, non solo uomini. Peter Stein ha realizzato uno spettacolo bello e comprensibile, una regia che si basa sul plot, descritto agli spettatori in ogni dettaglio; una regia che ha come punto di forza la recitazione dei cantanti, curatissima nei gesti e nelle movenze, persino nelle espressioni dei visi. Un lavoro attoriale assolutamente strepitoso che aumenta la suggestività dell'opera, avvicinandola al lavoro meticoloso di una regia di prosa (qui ripresa da Jean Romain Vesperini e da Lorenza Cantini), che coglie ogni spunto e lo esalta con massima chiarezza. Molto suggestive le scene di Ferdinand Wögerbauer, che ambientano l'opera negli anni Trenta, epoca della scrittura della partitura. Gli ambienti dei primi due atti sono giocati sui toni del bianco e del nero ed illuminati da luce naturale e algida che entra da vetrate e finestre; il terzo atto vira sui colori accesi, rosso, verde, azzurro, e la luce si fa artificiale, un contrasto evidente che segna la cesura con il declino della protagonista. Il primo quadro, lo studio del pittore: un loft con parete vetrata a sinistra leggermente inclinata; le altre pareti con tracce di umidità, uno spazio fortemente allungato, come incuneato nel palcoscenico. Il secondo quadro, il salotto: bianco ghiaccio per pareti e mobili, Lulu voluttuosamente sdraiata sulla chaise longue di Le Corbusier, a sinistra una vetrata perpendicolare al pavimento, in alto un lucernario quadrato. A unire i diversi quadri i ritratti di Lulu, chiari emblemi di un culto narcisistico della personalità esercitato con la propria immagine: nello studio del pittore è work in progress sul cavalletto; nel salone ci sono diversi ritratti appoggiati al pavimento (lo stile ricorda Tamara De Lempicka). Nel terzo quadro il ritratto che il pittore aveva sul cavalletto è divenuto manifesto dello spettacolo di Lulu. E infatti la scena ha luogo nel camerino del teatro, dove si scende per scale oltre una porta; da una finestra in alto sul fondo entra una lama di luce che si disegna sulla parete, oltre il paravento. Sontuoso il salone della villa nei due quadri successivi, dominato da uno scalone d'onore che conduce a un piano ammezzato, rischiarato da una finestra angolare alta due piani. Il ritratto, anche stavolta su cavalletto, è una variazione del primo. Del film muto vengono proiettate solo le didascalie, con un senso incalzante del succedersi degli eventi. Quindi si riprende dallo stesso salone, ma non come prima: ridotto in miseria, coi mobili accatastati e la tappezzeria lacerata che penzola dalla parete. Dicevo della cesura: nel terzo atto l'atmosfera è quella claustrofobica dell'interno di una scatola, le pareti rosso fuoco a contrastare gli ambienti che si vedono oltre le porte, uno verde e uno azzurro, tutti privi di finestre. Il décor non è più quello raffinato Deco, piuttosto è virato al circense, agli incubi colorati dei quadri di Kirchner. Il finale è in una squallida, bassa soffitta con tetto fortemente spiovente, le luci azzurrine come in un interno espressionista, nella continuazione delle deformazioni del precedente quadro. Da sottolineare i perfetti cambi scena, che si svolgono nei momenti sinfonici, calibrati al millesimo di secondo con la musica. Il sipario del prologo, che poi chiuderà l'opera, è un collage di manifesti circensi di varie parti del mondo e la fugace, divertente apparizione di animali in cartapesta all'inizio, che spuntano dal sipario, aumenta il senso drammatico della partitura che seguirà. Con la presenza di Lulu come una bambolona in carne e ossa. Contribuiscono al suggestivo effetto creato dalle scene i costumi perfetti di Moidele Bickel, eleganti nei primi due atti, vagamente circensi nel terzo. Quelli di Lulu in particolare colpiscono: ballerina di circo nell'inizio, poi eleganti mise con orli asimmentrici nel prosieguo, alternati svolazzanti vestaglie, una velata avorio e a un'altra cinese. Il tutto illuminato ottimamente da Duane Schuler. Daniele Gatti, giustamente chiamato dopo lo splendido Wozzeck, dimostra di amare e “vivere” questo repertorio. La sua lettura di Lulu fa vibrare la partitura, di cui mostra l'impasto materico torbido, dai tratti ora molli e ora taglienti, ora grotteschi e ora drammaticamente dolorosi. Sconvolgente quelle note nere inchiostro, come la morte, nel finale, ad introdurre il “No, no” di Lulu morente. Che riassume la verbosa partitura e assesta un colpo al cuore degli spettatori. Ottimo il cast, sia dal punto di vista vocale che da quello attoriale, come si diceva sopra. Protagonista una Laura Aikin perfettamente immedesimata nella parte, ingenua e sensuale, con parrucca alla Louise Brooks (collegamento con il film di Georg Pabst) che ne accentua l'aspetto “innocente” e sbarazzino, spesso a gambe nude. La sua Lulu è tentatrice e lussuriosa (ma non apertamente femme fatale), provocante con il bastone in mano nello studio del pittore mentre posa per il ritratto. Accoglie con indifferenza, quasi con sollievo, la morte degli amanti, come se tutto ciò fosse inevitabile. Una donna di tanti uomini, di tanti nomi, di tanti passati. Per certi versi una persona come tante, se non fosse per quella coda da diavolessa nel secondo atto. Vittima anch'essa? Molto Bravi Thomas Piffka (Alwa), Natasha Petrinsky (la contessa lesbica Geschwitz), Stephen West (Dr Schön / Jack con baffi e bombetta, quasi chiapliniano), Roman Sadnik (il pittore / un negro), Franz Mazura, Rudolf Rosen, Magdalena Anna Hofmann, Robert Wörle, Johann Werner Prein. Completavano il nutrito ed affiatato cast Giovanni Luciani, Pervin Chakar, Romina Tomasoni, Claudia Bandera, Valdis Janson, Betram Klamp. Alcuni posti vuoti in sala, cresciuti dopo gli intervalli; molti applausi alla fine. FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)