Una tela grezza dove il colore lascia trasparire la trama, dove è distinguibile il legno che la tende e i chiodi a cui è affissa. Il palco si presenta così, spoglio, violentato dall'occhio di voyeur seduti in poltrona, scrutabile fin dentro le sue viscere. Quando si accede alla sala, lo spettacolo è già iniziato. È come entrare in un mondo preesistente, la stanza privata di qualcuno, una finestra sull'intimità.
Gemiti frastornanti di film porno si accompagnano alle istruzioni di sicurezza di volo mentre tre uomini (Macadamia, Nut e Brittle) disposti in linea prospettica verticale simulano in loop i gesti esplicativi degli stuart. I motori si riscaldano e aggiungono il proprio rombo alla mezcla sonora. L'exeplum gestuale assume pian piano la forza di una danza meccanicistica, rassicurante e quasi ironica impossibile da non ricondurre ad una certa valenza sessuale.
In quello che appare come un set in allestimento, dove buste e oggetti perimetrano il palco, e dove il paradosso tutto concreto di stuart e sessualità corrobora la sensazione di precaria realtà, ecco entrare in scena una eclettica Wonder Woman venuta dal mondo oltre-catodico che ricolloca l'assurda scenetta in una dimensione da reality show dove ognuno racconta se stesso nell'impasto tv-sex-realtà virtuale.
Ci si cala così nel mondo di Macadamia Nut Brittle, sesso, television culture, popular way of life, ironia stridente, cremosità fluida dell'essere, che esattamente come un gelato Hageen Dazs al gusto macadamia nut brittle ossia vaniglia e noci Macadamia caramellate, si adatta e prende forma assecondando il recipiente che lo ospita, per compiacere, per piacere.
L'assenza di una consapevolezza di sé di una generazione senza identità, il terribile quanto accecante guardare la vita e l'amore attraverso il filtro fidelizzante delle serie tv, la svendita dei corpi, l'anelare amore e il fingerlo per simulare il cinema, il chiedere presenza a fronte di una solitudine avvolgente, il costruire il proprio universo topico nello stile preconfezionato Ikea, il registrare la contemporaneità attraverso la lente sanremese e il gossip sbiadente. E poi il vendere le lacrime, il cristallizzare l'abbandono nell'obiettivo di una telecamera.
Il nostro tempo viene raccontato in quanto società di consumo sia esso sessuale, emotivo, commerciale. Non c'è una diegesi in questo lavoro di Ricci/Forte, e questo appare un punto di forza perché le riflessioni possono astrarsi da coercitive costrizioni pedagogiche. Non si racconta una storia ma si sviscera una educazione falsa che per lungo tempo ha parlato di amore eterno per poi restituire la bugia che celava.
Nel farlo cede il passo ora ad una violenta sessualità spinta e compulsiva esercitata come tentativo di riempimento interiore; ora ad un ironico ed improvvisato racconto corale, scandito da una luce rossa in proscenio che accendendosi e spegnendosi come in una telecamera regola i tempi dei turni di parola, di un incontro-chat sfociato in sesso appagante quanto iperbolico; ora in strazianti monologhi-richieste urlate di aiuto; ora in tetro, violento, estremo racconto alla Dennis Cooper dove il sangue viene spruzzato come pittura sui corpi nudi dei tre protagonisti, dove un uomo-coniglio viene faticosamente scuoiato vivo e lasciato ansimante a terra.
È in questa lenta ma raffinata costruzione e compravendita di desideri e sogni forti di favole e mediatico effetto di realtà che si sviluppa un sentimento che ascolta più il bisogno di provare e di ricevere amore che la voce dell'altro. E allora così spiegabile il lungo monologo di Anna/Wonder Woman che rivela il proprio amore cieco e frutto delle proprie anelate ricostruzioni del reale, ad un uomo che nel mentre anziché proteggerla la tortura picchiandola e legandola. Il dolore come cartina al tornasole del sentimento, prova d'esistenza e di importanza per qualcun altro.
Quel sentimento finisce così per essere vittima di una forza detonante che, quando si deve far fronte all'abbandono e al lutto che ne segue, arriva a distruggerlo. Un requiem aeternam fa da litania ad un elenco di vittime compiante di personaggi delle serie tv che nella scomparsa riportano a galla le nostre storie personali, i nostri lutti privati. La metafora non lascia scampo ed i muffin così precisamente allineati vengono ridotti poltiglia vischiosa, scivolosa, esattamente come il lutto: più ti ci muovi dentro più è difficile rimanere verticali.
Ma all'eliminazione ci hanno abituati; dal privato reale e doloroso dei nostri intimi addii, al reale trasfigurato della serie tv, fino al privato performato del reality show dove lo scarto e l'importanza di essere accettati e rimanere in gioco diventa giogo a cui sottostare. Nut viene eliminato e non c'è pubblico che lo salvi e non c'è casa a cui tornare.
Lo smaltimento di un amore, sia esso tra amanti che quello tra una madre morente e suo figlio, è cosa dura quanto impossibile. Il lutto viene illustrato come fosse un iter anatomico; le scorie liberate da quell'amore soppresso rimangono come frammenti cancerosi annidati tra gli organi. Quasi invisibili, quasi impercettibili, ma in libero circolo nella propria piccola tenda della solitudine dove mascherati da personaggi dei Simpson, sarcastici e biecamente ironici, ogni volta torniamo.
Pubblico che risponde entusiasta e numeroso, attori smisurati nella bravura e nell'adattare il palco alla propria stanza interiore, nel ricostruire il testo teatrale nella libera interpretazione. In linea con i contenuti, la scenografia è scarna, spogliata anch'essa da ogni sicuro mascherante involucro. Intelligentemente stridenti le scelte musicali che rispondono quasi sempre in significativo ossimoro alle scene recitate.
Visto il
24-02-2011
al
Tordinona - Sala Pirandello
di Roma
(RM)