"Vattene via. Vergogna". Con queste parole (troppo drastiche per trovarci consenzienti) urlate durante la ribalta finale, un loggionista, sovvertendo il grido di "Vittoria!" inscenato fuori sipario nel corso dell'ouverture, ha espresso il proprio dissenso all'indirizzo di Dario Argento, regista dell'allestimento di Macbeth che ha inaugurato la stagione al Teatro Coccia di Novara.
Il nuovo corso impresso dal Direttore Artistico Renata Rapetti sta producendo frutti encomiabili, misurabili in termini di affluenza e rinnovamento del target di pubblico. Gli studenti che hanno assistito alle prove hanno dimostrato per il nome mediatico un interesse in altre occasioni carente. Ben venga quindi qualsiasi escamotage utile a trasmettere ai giovani l'amore per l'opera, a patto che si rispetti il livello artistico: "la miglior qualità possibile, ai prezzi possibili in questo momento di crisi" è il diktat di Rapetti. Se lo scorso anno la regia di Morgan (da noi lodata su queste colonne) aveva positivamente stupito, qualche perplessità nutriamo per quella del suo ex suocero Dario Argento (attendiamo, con Asia, il concludersi della "trilogia familiare"). La ragione è presto detta. Morgan è un musicista, Argento no. Nel Teatro d'opera, la rispondenza musicale è aspetto registico imprescindibile per soddisfare l'armonia d'insieme; tanto che lo stesso Giuseppe Verdi ha lasciato partiture ricchissime di annotazioni inerenti la scena.
Apprezzabile la coerenza drammaturgica dopo la trasposizione degli avvenimenti dalla Scozia dell'anno Mille, all'Europa dilaniata dalla Prima Guerra mondiale (costumi Elena Bianchini); per quanto qualche scollamento nella credibilità sia risultato evidente, come nel caso delle streghe, le cui parti cantate, anche solistiche, sono state affidate ad un coro di placide contadine. Argento ha chiuso le note di regia annunciando: "naturalmente userò gli effetti speciali" (affidati a David Bracci), tradotti in un'artigianalità che ha suscitato sorrisi di tenerezza. Un cavallo morto abbastanza verosimile, due impiccati a capo eretto e qualche manichino a terra, sotto le luci inclementi (di Angelo Linzalata come le scene) sono apparsi in tutta la loro plasticità (intesa nel senso di...plastica); un fuocherello attorno al quale hanno danzato tre ipertricotiche streghe, come mamma le aveva fatte, ovvero nude e glabre (lontani i tempi in cui Marina Ripa di Meana lanciava la moda del toupé intimo); il fantoccio di Duncano sballottato, durante la lotta, dal suo uccisore, ha inondato di sangue il vetro di una finestra; il fantasma di Banco apparso per nulla evanescente anzi più carnale che mai; Macbeth decapitato (come volle Shakespeare) la cui testa è stata mostrata alla folla (reminescenza di Turandot?) mentre il collo spruzzava, da tubicini, zampilli degni dello sfiatatoio di una balena. Sinceramente ci aspettavamo altro, dal maestro del genere horror. Tuttavia riteniamo che il regista, debuttante in ambito lirico, abbia intelligentemente inteso scherzare con sé stesso, autocitandosi. La sua impostazione è stata dichiaratamente rivolta ad intervenire il meno possibile, a confezionare una sorta di studiata non-regia. Così è stato. La recitazione si è dipanata in termini statici, poco efficaci nel trasmettere il clima di angosciante terrore, nel riprodurre l'atmosfera che Shakespeare ha voluto sanguinaria nelle indoli prima ancora che nelle azioni. Il coro ed i solisti hanno approfittato della mano lassa per cantare ai limiti del proscenio, rivolgendosi alla platea, sottacendo di conseguenza la necessaria interazione; ed anche l'espressività del canto ne ha risentito. Di contro, con notevole efficacia, proprio questo distacco ha fatto apparire i soggetti come anime sole, chiuse nella propria aberrazione mentale, costrette a trovare la forza, feroce e sanguinaria, nelle rispettive interiorità. Bellissima e colta l'intuizione, nel contesto di guerra, di far apparire sulla scena le succitate streghe da una nera voragine e farle muovere come un solo corpo munito più propaggini: richiamo a Cerbero, guardiano della porta dell'Inferno, le cui tre teste simboleggiano per l'appunto la distruzione del passato, del presente e del futuro.
Dimitra Theodossiu non presenta una vocalità al cento per cento adatta al ruolo ma il temperamento drammatico verdiano sì, e basta ed avanza. La padronanza tecnica e le straordinarie doti espressive, estese al canto, hanno fatto sì che la sua Lady Macbeth abbia toccato vertici d'eccellenza. Gli squilli di sfolgorante solidità sono stati stemperati in soffuse mezze voci, con la repentinità dovuta agli sbalzi umorali propri del personaggio. Se qualche tono grave è risultato lievemente cupo, i registri medio-acuti sono emersi in tutta la loro corposa bellezza. Grazie ad un attento controllo dei volumi e degli accenti, la timbrica è stata assoggettata alle sfaccettature caratteriali. Una Lady che, benché vestita con un tailleurino da impiegatuccia sul quale troneggiava il brillante al dito (noblesse oblige, anche in tempo di guerra), ha esercitato il proprio potere sul consorte con subdole arti seduttive, sapiente mix di Eros e Thanatos. La pazzia, prima solo accennata, ha assunto via via aspetti magnificamente deliranti, straniati, allucinati. Una vera interprete. Giuseppe Altomare, Macbeth, ha sofferto l'imposta sobrietà gestuale. Una vocalità, la sua, che tende a schiarire nella zona acuta raggiungendo l'apice nei momenti melodici, torniti da chiaroscuri, nelle apprezzabili mezze voci, nel fraseggio garbato. Bella messa in voce, tenuta salda e lunghissimo fiato nell'acuto a conclusione di una serata non omogenea ma di discreto spessore. Giorgio Giuseppini possiede una linea di canto elegante e mezzi vocali consistenti che si tingono di una vivida tavolozza coloristica, sapientemente utilizzata assieme al fraseggio più che perfetto, per conferire espressività ad un Banco di grande raffinatezza. Macduff era il giovane Dario di Vietri, dalle interessanti doti naturali in una impostazione ancora scolastica; ha confezionato una prova di pedissequa correttezza. Destinato a crescere. Completavano il cast il bravo Ernesto Petti, Malcolm, Valeria Sepe, Dama di spicco e ancora Radu Pintillie, Medico, Piero Ceffa, Sicario. Convincentemente ferine le streghe mimate da Alessandra Bordino, Beatrice Bosso, Chiara Silvestri.
Piccoli slegamenti nella coesione e qualche attacco non precisissimo, per il Coro Schola Cantorum San Gregorio Magno diretto da Mauro Rolfi; troppo spesso scappato di mano a Giuseppe Sabbatini. Il direttore ha fatto scaturire dall'Orchestra Filarmonica del Piemonte un suono chiaro, non usuale in talune di queste pagine verdiane nondimeno carico d'interesse. Pur in presenza di tempi incalzanti, ha riservato paterna attenzione all'appoggio delle voci, favorite al meglio anche mediante un oculato dosaggio volumetrico. Il Teatro stracolmo ha tributato le maggiori ovazioni a Soprano e Basso, senza dimenticare gli altri protagonisti.