Che cosa è mancato nell'infanzia di Macbeth al punto da pesare come un macigno e improntarne le scelte successive caratterizzandole in modo necessitato e privo di alternative? O piuttosto possiamo pensare a una predestinazione fatale che annulli ogni consapevolezza razionale e ogni possibile scelta in base a cuore o ragione? Ma il tema della predestinazione contrasta con gli snodi shakespeariani di brama del potere politico, spezza quel legame di complementarietà fra Macbeth e la Lady e non giustifica gli eventi scenici.
Come una predestinazione, Macbeth bambino e adolescente è sempre solo: accoltella un orsacchiotto di peluche con la corona regale in testa ed estrae dalla pancia l'imbottitura. Quando egli è bambino, l'orsacchiotto è enorme e lo sovrasta, ma l'innocenza del gioco prevale sugli affondi della lama ed egli esce di scena con l'orsacchiotto per mano semovente; invece quando è adolescente, l'orsacchiotto è piccolo e maneggevole e fiumi di sangue colano dalle pareti allagando il palcoscenico come conseguenza delle coltellate. Dunque, secondo la drammaturgia di Giorgio Barberio Corsetti, non sono tanto l'animo nero della Lady oppure la brama di potere di Macbeth a portare a ordire l'omicidio del re, quanto una pulsione (inconscia?) che Macbeth avverte da sempre (fin da bambino), la coartazione a ripetere un comportamento.
La cifra esteriore di questi incubi e tensioni interiori è un grafismo elementare e policromatico che invade le pareti sceniche con segni tracciati a dita e pennellate espressionistiche di densa materia pittorica (realizzati con una sorta di pennarello elettronico). Su questo si innestano quei temi che confondono se non addirittura infastidiscono: oltre alla predestinazione, il totalitarismo (anche militare) e i barboni (de-relitti dell'umanità). Le proiezioni dei volti di Hitler, Stalin e Mussolini che arringano alle folle si sovrappongono ai faccioni di Macbeth e della Lady; divise mimetiche tornano più volte in scena e video; non mancano maltrattamenti di prigionieri. Il popolo di “Patria oppressa” è in fila alla mensa dei poveri ma non esita a imbracciare fucili e pistole, non si sa in preda a quale impeto rivoluzionario (la questione sociale?). Poco comprensibili i barcollamenti (a tempo di valzer) nel finale del secondo atto: a forza di “colmare i calici” gli invitati sono tutti ubriachi? Non caratterizzante il corteo regale che entra da fondo platea rimandato in video con riprese live (trovata che era apparsa perfetta nel ronconiano Viaggio a Reims). Il momento del regicidio è accompagnato da un segno grafico didascalico: viene proiettata sulle pareti l'immagine di un pugnale che attraversa la scena da destra a sinistra lasciando un'ampia traccia di sangue rosso sul blu delle pareti fino alla camera del re (sebbene un poco ricordi la scia di un aereo nel cielo). Debole il finale con Macbeth che estrae la corona da una valigetta di pelle da impiegato e la lascia cadere a terra morendo.
Il riferimento al totalitarismo è nella scena essenziale di Giorgio Barberio Corsetti e Cristian Taraborrelli, due elementi curvi che nel lato concavo ambientano gli interni e nel lato convesso gli esterni, completati da scalinate dove si potevano evitare i corrimano e aperti da finestre squadrate che consentono di vedere il velatino di fondo con proiezioni di rami di quercia, nuvole, fumo, fiamme.
I costumi di Cristian Taraborrelli e Angela Buscemi non identificano una precisa epoca storica e, più che contemporanei, potrebbero definirsi novecenteschi, restando brutti esteticamente e non valorizzando le fisicità di protagonisti e coro.
Splendide le luci antinaturalistiche di Fabrice Kebour che marcano i cambiamenti di stati d'animo e le svolte nella vicenda. I video di Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii assecondano le intenzioni registiche, mentre le coreografie di Raphaëlle Boitler non sono particolarmente pregnanti.
Per la parte musicale si è optato per la versione del 1847 ma corretta con la successiva orchestrazione di “Patria oppressa” e l'inserimento di “La luce langue”, scelta discutibile nel contrasto tra queste due e le dominanti ruvidezze del primo Macbeth. Però Valery Gergiev, più che ruvido, è parso scomposto nelle dinamiche e nel suono: le prime hanno visto una velocità che non ha consentito a volte l'appiombo tra buca e palco, il secondo, privo di luminosità, non coglie appieno gli impasti contrastati della partitura per una genericità priva di carattere. In alcuni momenti sinfonici il suono orchestrale è disturbato da rumori in scena, calpestio sulle tavole del palco oppure spostamento di elementi scenici. Il coro è preciso, pur con qualche difficoltà di appiombo con l'orchestra, ma non eccelle come suo solito e “Patria oppressa” non raccoglie l'applauso. Dal coro e dai mimi provengono le streghe straccione, barbone invasate manovrate da una forza interiore straniante.
Franco Vassallo ha voce morbida e pronuncia curata da baritono verdiano ma il suo Macbeth è poco incisivo e mostra stanchezza nella seconda parte. La Lady di Lucrecia Garcia non emerge né vocalmente né attorialmente, mancando completamente di rendere il carattere e le peculiarità del ruolo; la voce piatta e lamentosa mostra evidenti difficoltà nelle agilità e nel registro acuto; pessima per accento e intonazione la lettura della lettera. Ottimo il Macduff di Stefano Secco dalla voce limpida, piena e sicura. Ruvido il Banco di Stefan Kocàn; appropriati la Dama di Emilia Bertoncello, il Malcom di Antonio Corianò, il Medico di Gianluca Buratto e il Domestico di Ernesto Panariello. A completare la locandina Luciano G. Andreoli (Sicario), Lorenzo B. Tedone, Beatrice Fasano e Lucilla Amerini (le tre Apparizioni in voce, interpretate attorialmente da mimi). Bravissimi gli acrobati, presenti in vari momenti e protagonisti durante “Ondine e silfidi”.
Pubblico numeroso ma freddo, qualche contestazione mista ad applausi misurati e di circostanza.