Son passati dieci anni giusti, da quando il Macbeth verdiano nella rilettura registica di Henning Brockhaus e scenografica di Josef Svoboda è apparso sul palcoscenico del Teatro Verdi di Trieste. Con i costumi di Nanà Cecchi e le coreografie di Valentina Escobar.
Ma lo spettacolo in sé, riallestito nel 2012/13 in coproduzione con Jesi e Genova, vide la luce già nel 1995 sulle tavole dell'Opera di Roma. Allestimento dunque ben noto e collaudato, d'intensa carica drammatica e di cospicua forza emotiva. Tanto da essere richiesto anche all'estero.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Regia e scenografie scabre ed essenziali
Ricordiamo che le scenografie di Svoboda, ricostruite da Benito Leonori – l'artista ceco è mancato nel 2002 – sono quintessenza dell'essenzialità: cioè una serie di pannelli in stoffa sui quali si stagliano videoproiezioni freddamente descrittive, e pochi, indispensabili arredi di scena. E il grande specchio che cala nella scena del banchetto, allorché dietro si illuminano gli spettri mentali del regicida, sfonda d'un botto la parete.
La regia di Brockhaus è scabra, accuratissima, serrata nell'andamento; la preparazione degli interpreti, del coro, dei figuranti minuziosamente accompagnata. Vi si avverte ovunque il fremito del Male, poiché il regisseur tedesco esalta il lato oscuro, morboso, psicopatico dei protagonisti, avviluppando lo spettatore nella spirale di ambizione, sangue e violenza che culmina nell'annientamento d'entrambi.
Musicista, ma anche drammaturgo
Macbeth è la prima opera cui Verdi, postosi di fronte del testo shakespeariano, ragiona non solo da musicista, ma anche da autentico drammaturgo. Tanto da correggere maniacalmente il libretto del Piave - alla fine ci metterà mani anche il Maffei – e comandare accurate prescrizioni sceniche. Comprendeva come fosse un vero dramma musicale, «un'opera un po' più difficile delle altre, ed importante per la mise en scène», come scriveva all'amico Flauto.
Al punto da auspicare in scena una Lady Macbeth «brutta e cattiva» e dalla voce « aspra, soffocata, cupa», quale aveva fissa in mente. Più facile a dirsi, che a farsi. “Sporcare la voce” non è cosa che stia nel bagaglio mentale di nessun soprano.
Una coppia di omicidi
Infatti ci riesce solo in parte, l'olandese Gabrielle Mouhlen. Perché se l'intenzione si intravede, mancano i mezzi per metterla in pratica. Scenicamente è indubbiamente espressiva, e credibile; sa anche destreggiarsi nel canto d'agilità, ed il colore è quello giusto; ma la voce non possiede né lo spessore, né lo splendore, né l'incisività che vorremmo.
Di contro, il Macbeth del coreano Leon Kim è un'ulteriore conferma d'una voce assai interessante, ben educata e dalle notevoli risorse sonore, e di una personalità interpretativa ormai più che matura. Il personaggio c'è, e ben centrato, nell'eseguire i recitativi con nobile morbidezza e varietà d'accenti; e nel lanciarsi nel canto con eloquenza, fantasia, fine sensibilità.
Corretto, ma scarsamente espressivo il Macduff di Riccardo Rados; prodigo di voce e ben modulato il Banco di Cristian Saitta; inadeguato il Malcom di Gianluca Sorrentino. Parti di fianco funzionali: Cinzia Chiarini (Dama), Francesco Musinu (Medico), bravissimi; e poi Damiano Locatelli, Giuliano Pelizon, Francesco Paccorini.
Una commistione di versioni
La partitura mescola le due versioni di Firenze 1847 e Parigi 1865. Mancando i ballabili, siamo insomma un po' a Milano 1874. Dal podio presiede Francesco Maria Carminati: direzione di massima nitidezza, molto accurata nello strumentale – e l'Orchestra risponde assai bene - che rivela pieno possesso della partitura.
Però un po' atona, senza fremiti, non riesce sempre a descrivere al meglio l'atmosfera cupa, ferina, oppressiva del lavoro. Questo, tanto negli a solo che nei duetti e nei concertati. Buona la prestazione del Coro preparato da Paolo Longo, anche se Patria oppressa non desta in noi la solita emozione.