Macbeth di Verdi apre la Stagione del Teatro La Fenice di Venezia, e nascono le discussioni. Consensi incondizionati nei confronti del cast, imperniato sul protagonista Luca Salsi, e del direttore musicale Myung-Whun Chung.
Macbeth di Giuseppe Verdi apre la Stagione 2018-19 del Teatro La Fenice di Venezia, e nascono le discussioni. Consensi incondizionati nei confronti del cast, imperniato sul protagonista Luca Salsi, e del direttore musicale Myung-Whun Chung. Molte perplessità – e sonore contestazioni, almeno alla prima – sorgono invece per lo spettacolo congegnato da Damiano Michieletto.
Un cerebralismo invadente
L'artista veneziano ha attorno a sé i soliti collaboratori: per lui Paolo Fantin ha concepito una scenografia astratta - pareti di acciaio e neon ai lati, ed uno sfondo neutro - dove domina il bianco, colore di lutto nelle civiltà indo-cinesi. La sua interpretazione del dramma shakespeariano gioca molto con grandi fogli di nylon, a fare da velo tra mondo reale e fantastico, a suggerire un'enorme pulsante medusa che avvolge il coro; persino i morti vengono infagottati in plastica, ectoplasmi dissolti nel nulla. Aleggia però su tutto un eccessivo, fastidioso cerebralismo: è pur vero che Macbeth è un dramma sulla mancanza di figli e di eredi, e pare questo, oltre alla brama di potere, ad ossessionarne il protagonista. Così la pensava pure Freud.
In più Michieletto si inventa - è scritto nelle note di regia - che abbia avuto una figlia poi morta, con la quale cerca un contatto nell'aldilà; di qui i tanti bambini, i palloncini, le altalene, i balocchi che girano in scena. E l'invidia per i figli degli altri. E s'immagina che la Lady non abbia generato, sarebbe quindi una seconda moglie, ahimé sterile, che lo tratta da bambino e lo spinge ad eliminare la prole altrui. Mah...
Sulla scena, siamo messi di fronte ad un'agiata società alto-borghese, perché la regia da una parte, ed i costumi di Carla Teti dall'altra richiamano volutamente il film Festen di Thomas Vinterberg, feroce resa di conti nella ricca famiglia Klingenfeldt. Dunque ecco Duncano descritto come un nonno bonario che spegne le candeline sulla torta, e gioca coi bimbi tra gli ospiti d'una festa di compleanno. In scena abbondano annotazioni non nuove, talune persino banali. Dopo l'omicidio Duncano riappare, si spoglia, si cosparge di candida vernice: ne scorrerà ancora molta, nel proseguo, ad imbrattare i presenti. Il figlioletto di Banco scorrazza in triciclo, angosciando Macbeth; tre bambine uguali, vestite di rosso - curiosa citazione da Shining – vanno e vengono in scena, gli comunicano pure le profezie. Le deliranti visioni sono sostituite da scheletri che gli finiscono tra le mani; il coro «Patria oppressa» è accompagnato dal funerale dei cari di Macduff, che vediamo ritti davanti alle rispettive corone funebri. E via di questo passo, sovraccaricando di inutili orpelli tutta l'opera, forzando l'essenziale e stringente drammaturgia verdiana. E, prima ancora, shakespeariana.
Interprete per interprete
Protagonista indiscusso e incontrastato è Luca Salsi, divenuto un Macbeth di assoluto riferimento, incisivo ed eloquente: ne abbiamo riferito già in occasione delle recenti prove di Ravenna e Parma. Qui magari abbiamo incontrato un personaggio più concitato e nervoso, a momenti vocalmente sfrenato; forse dietro c'è lo zampino della regia, chissà. Vittoria Yeo si impegna a fondo, e lo si avverte. Però non possiede la caratura vocale adatta per esprimere a fondo la figura della Lady: mancano l'estensione giusta, e il mordente nelle agilità (ed infatti evita per prudenza i da capo nella temibile «Or tutti sorgete»), mentre il registro di centro non ha adeguato spessore e gli acuti escono spesso forzati. Il basso Simon Lim è senza dubbio ormai una buona garanzia, e difatti il suo Banco si staglia benissimo in scena; Stefano Secco è un Macduff abbastanza incolore, mostra poca convinzione nella sua unica aria; il comprimariato funziona tutto a dovere.
Nell'affrontare per la prima volta quest'opera non certo facile, Myung-Whun Chung opta per una lettura incalzante, molto giocata sulla varietà dei colori, sugli scarti dinamici, su di un ritmo narrativo sostenuto, persino implacabile, suggerito anche agli interpreti. Per starci, ci sta, e l'effetto riesce travolgente – il pubblico ne è entusiasta - anche perché sia il cast che l'orchestra veneziana lo assecondano in pieno. Come pure il coro, che trova ogni volta le giuste sfumature.