Apre in ritardo di mezz’ora, a causa di una protesta sindacale dei lavoratori che chiedono da parte del sovrintendente maggiori investimenti di risorse per il Filarmonico, la prima di stagione nell’anno del centenario areniano. Anche nella tradizionale data del 13 dicembre il teatro non riesce però a fare il tutto esaurito. In cartellone il Macbeth di Giuseppe Verdi, titolo non frequentatissimo, ma di straordinario interesse musicale, vista anche l’importante revisione che il suo autore ne volle fare in occasione della prima rappresentazione parigina del 1865; una versione che, se confrontata con quella primitiva del 1847, ci consente di toccare con mano l’evoluzione del progetto artistico del Maestro, il quale, in questo frangente, sa accostarsi magistralmente anche al mondo della danza così caro al melodramma francese.
L’allestimento veronese, che vede occuparsi di regia, scene, costumi Stefano Trespidi e della regia video Amerigo Daveri, ambienta l’azione sul palcoscenico di un teatro durante una prova con tanto di incursioni del regista o dei costumisti e il coro assiepato in cerchio, armato di copioni e matite. Si tratta di un’idea di teatro nel teatro e di work in progress che non presenta nessuna particolare novità e che, in assenza di qualche trovata originale, finisce per sapere un po’ di déjà vu. Pochi gli elementi caratterizzanti che di volta in volta fanno il loro ingresso sulla scena: tre alberi sradicati calati dall’alto, un gruppo di quattro impiccati, il trono, tre bacili per lavarsi le mani dal sangue, un paravento dietro il quale avviene l’omicidio del re. Sul fondo un telo bianco su cui si alternano proiezioni di immagini di quanto avviene in scena o di spezzoni di film tratti dalla vasta cinematografia shakespeariana del passato. Lady Macbeth indossa lunghi abiti da sera neri e rossi e si fabbrica da sola la corona di cui fregiarsi costruendola con dei pugnali, le streghe indossano folgoranti parrucche rosse e agitano frustini. Anche le coreografie del balletto, ideate da Maria Grazia Garofoli, non aggiungono particolare fascino all’insieme, risultando anche leggermente fuori contesto.
La direzione di Omer Meir Wellber è in genere piuttosto serrata nei tempi e non sempre in sintonia col palcoscenico, priva forse di un controllo totale sull’insieme.
Andrzej Dobber nel ruolo del titolo è un Macbeth giustamente ignavo e titubante, il timbro però è vagamente sabbioso e nasale, l’intonazione non sempre ineccepibile. Meglio la lady Macbeth di Susanna Branchini, la voce è potente e sonora, il cipiglio deciso, l’emissione, ad eccezione di qualche leggera forzatura, nella sostanza controllata. Buono il Banco di Roberto Tagliavini, il timbro è caldo e avvolgente, la presenza in scena credibile, la linea di canto tecnicamente curata. Più che discreti il Macduff di Massimiliano Pisapia e il Malcom di Giorgio Misseri. Con loro Dario Giorgelè (Medico), Seung Pil Choi (Domestico di Macbeth/Sicario), Alberto Testa e Vittoria Sancassani (Apparizioni). Complessivamente buona la prova del coro preparato da Armando Tasso.
Alla fine dello spettacolo molti applausi per tutti.