Lirica
MACBETH

Parma, teatro Regio, “Macbeth…

Parma, teatro Regio, “Macbeth…
Parma, teatro Regio, “Macbeth” di Giuseppe Verdi MACBETH, UN NANO E LE LAVANDAIE Il secondo e ultimo allestimento operistico in cartellone al Festival Verdi 2006 è una nuova produzione del Macbeth, nella versione del 1865. La regia di Liliana Cavani è antistorica e ambienta il tutto nell’anno 1944 all’interno di un teatro bombardato, dove va in scena il Macbeth in costumi elisabettiani. All’apertura del sipario ci sono stati molti fastidiosi rumori da parte del pubblico, ma l’ambientazione è all’inizio accattivante grazie alle splendide scene di Dante Ferretti e ai costumi sontuosi di Alberto Verso. Sono altre le cose che non funzionano, a cominciare dall’inutile artificio della collocazione storica. Macbeth è ambientato in un’epoca imprecisata, ma comunque lontana dai codici di comportamento rinascimentali e dai canoni di rappresentazione elisabettiani, che imponevano l’unità di tempo e di luogo, senza cambi scena. Nelle note di regia si legge che l’ambientazione è negli anni ’40 perchè quelli sarebbero gli anni più bui del secondo conflitto mondiale. E invece questo non arriva: si vede sul palcoscenico una folla che tutto sembra fuor che incupita per la guerra, men che meno preoccupata. Tutt’altro: le persone vanno a teatro, si divertono, fumano, scherzano, si baciano, conversano piacevolmente, socializzano. Tesa alla enucleazione della dimensione psicologica del dramma, la Cavani trasforma le streghe in lavandaie, “donne del popolo che si tramandano una sapienza antica, che è la chiaroveggenza, con i suoi riti e le sue magie. Chiaroveggenza che poi è sapienza psicologica”. Dunque il fantastico inteso come superstizione. Invece sia Shakespeare che Verdi intendono l’elemento fantastico quale trasposizione di forze occulte insite nella stessa natura umana, proprio come dice Schelgel “lo spavento dell’ignoto, il segreto presentimento di una parte misteriosa della natura”. E sappiamo quanto il pensiero del filosofo tedesco abbia guidato l’itinerario shakespeariano del musicista, fino agli esiti altissimi di Otello. Invece nella regia della Cavani non si ha punto la sensazione che il sovrannaturale incida e condizioni il quotidiano, e non si può tagliare via l’elemento fantastico e magico in una vicenda in cui è parte sostanziale. La tinta nera del dramma sembra essere condensata nella continua presenza del nano, elevato quasi a motore degli eventi (onnipresente, offre il pugnale a Macbeth, stimola la cattiveria della Lady), ma, mentre in altre opere dello scrittore il fool è presenza necessaria e fondante l’azione, qui proprio non ci sta. La scena del ballo coreografata da Amedeo Amodio spesso viene tagliata, ma nel Festival Verdi era d’obbligo inserirla, seppure in questo caso rompe inutilmente l’atmosfera di tensione del dramma. L’epilettica ballerina sembra Giselle nella versione coreografica del grandissimo Mats Ek, là un capolavoro, qui no. Fastidiosi si sono rivelati i cambi di scena, numerosi e a vista, che interrompono l’azione, con il coro e le comparse che scendono dai palchi del teatro elisabettiano e conversano sul palcoscenico. E qui torno a Schlegel, che aveva intuito come il dramma avesse un ritmo interno imprescindibile e di concisa brevità: “quanto al corso dell’azione, essa procede con terribile celerità dalla prima catastrofe (l’uccisione di Duncano) fino alla conclusione”. E invece nella regia della Cavani tutto appare frammentato, rallentato, allungato, dilatato. Ma non si può negare alla Cavani una capacità unica nel muovere abilmente il coro e le numerosissime comparse, con tanta abilità che si ha l’impressione che la scena si svolga davvero, che sia un frammento di vita reale. Anche la coppia dei protagonisti risente di questa linea registica e poco ha della coppia shakespeariana. Bravissimo Leo Nucci in un ruolo che gli calza a pennello e che frequenta da anni, soprattutto nell’aria “pietà, rispetto, amore”, quando il pubblico ha invocato a gran voce il bis. Soffre di più le scelte registiche Sylvie Valayre, che si trova ad interpretare un personaggio con poco spessore e poca dignità e alla fine poco credibile. La soprano soffia un’eccellente interpretazione attoriale, nei primi due atti sembra un poco in difficoltà, ma poi si riscatta con il terzo ed il quarto. Brutta la scena del brindisi, dove sembra Violetta all’inizio di Traviata, errore grossolano perché la corte di Macbeth è infestata di “vipere” e quell’atmosfera idilliaca e festaiola è davvero poco credibile. I momenti più alti il duetto e la scena del sonnambulismo. Con loro bravi Enrico Iori (Banco), Roberto Iuliano (Macduff), Tiziana Tramonti (dama), Nicola Pascoli (Malcom). Splendida la direzione orchestrale del Maestro Bartoletti, arrivato in questi giorni a un genetliaco importantissimo. Bartoletti, utilizzando al meglio l’ottima orchestra del Regio, ha fornito una lettura musicale onirica ed omogenea, una splendida concertazione che ha creato un clima di allucinazione di estrema suggestione. Il coro soffre della collocazione sui palchi del finto teatro elisabettiano, con alcune sbavature negli attacchi e un eccesso di volume in alcuni momenti. FRANCESCO RAPACCIONI Visto a Parma, teatro Regio, l’11 giugno 2006
Visto il
al Filarmonico di Verona (VR)