Lirica
MACBETH

PRIVATI ABISSI

PRIVATI ABISSI

Shakespeare indaga con Macbeth gli abissi privati dell'animo umano, in particolare il riflesso che il male presente nell'anima ha nel comportamento, tanto connaturato (Lady) quanto endogeno (Macbeth). È questa una tragedia notturna: continui sono i riferimenti al buio e alle tenebre come condizione esteriore e, soprattutto, interiore. Dunque Robert Wilson ambienta l'opera nel buio, un buio totale e nerissimo, assorbente, da cui non emerge niente e nessuno se non i protagonisti per il tempo strettamente indispensabile al canto, enucleati da fasci bianchissimi di luce in volto, luce riflessa e amplificata dai volti biaccati come maschere del teatro giapponese. Un buio che altro non è se non quell'abisso privato, fonte e propulsore del male.

La resa scenica è bidimensionale, non c'è profondità: lo spettacolo è bellissimo ma non cerca altro se non il godimento estetico, affidando gli approfondimenti a pochi simboli (e questo è, al tempo stesso, il pregio e il limite). La luna ha un qualche effetto nella determinazione degli eventi? Pare di sì. Nell'ouverture la Lady è in scena sola a osservare una falce di luna che cambia posizione ma resta sempre di identiche dimensioni, la luce fredda non attenua il buio incombente e terrifico. All'improvviso la luce bianca che illumina il volto illividito della Lady diventa rossa: profezia o anticipazione di eventi? Così si chiude la sinfonia.
I coristi sono sempre immersi nel buio, percepiti fisicamente solo grazie a dischi di luce sul petto che si accendono e si spengono a comando. Scena vuota: le luci sono protagoniste, al neon principalmente, si fanno scultura o evocano oggetti e luoghi astratti, altrimenti sono fasci di colore primario puntati sui volti oppure giocano con il fondale in rigorose geometrie. Sulle tavole del palcoscenico, a limitarlo verso la platea, una fila di neon bianchi che aumentano di intensità in alcune note della partitura.

La cifra stilistica del regista è riconoscibilissima ma qui pare funzionare più che in altri precedenti. I movimenti sono rarefatti: si entra, si esce, si cammina. I gesti sono limitati e artificiali, movenze meccaniche e marionettistiche. Le espressioni facciali sono assenti, i volti pietrificati sotto un pesante cerone bianco.
La musica evoca, il libretto racconta: altro non serve. Le suggestioni che il regista trasmette al pubblico superano la forma concertante dell'opera e il gioco di luce/buio cattura l'attenzione. La luna è l'unica fonte di luce, anche se non illumina realmente e si staglia contro un cielo nero, disco rotondo che si mette di taglio quando si canta “tu notte ne avvolgi le tenebre”. Il gioco scenico è di una nitidezza impeccabile e di perfetta realizzazione, basti l'inizio dell'atto secondo con piccole sfere sovrapposte in linee vicine che ruotano su sé stesse illuminandosi di arancio, succedanei di un sole che non sorge mai e, quando appare dal basso, quel sole metallico è come una fetta di arancia, mero complemento di arredo.
Non ci sono oggetti di scena: la tavola sono due tubi orizzontali al neon, il letto una cornice alta e stretta. Si potevano evitare, in una messa in scena suggestiva in quanto astratta, il fantasma come velo a forma di sedia sospeso nel vuoto e lo spirito materializzato in testa mozzata. “Patria oppressa” si chiude con un rettangolo di luce a terra replicato sul fondo, tomba luminosa nel buio azzurrato. Il finale è introdotto da un cielo stellato.
Storici i costumi di Jacques Reynaud, armature rigide e dure che quasi inibiscono movimenti fluidi e naturali sia per gli uomini che per la Lady. I coristi vestono tute in stile operaio o camicioni informali, tutti nerissimi. Per il resto lo spettacolo è creazione totale di Bob Wilson, autore di regia, scene, coreografia e luci (realizzate da AJ Weissbard).

Roberto Abbado dirige in modo ottimale l'orchestra del Comunale: il gesto pensato e meditato, sicuro e pacato, gli consente di dominare i tempi e le dinamiche dell'opera ottenendo un suono rotondo che non censura gli scarti drammatici e i pigli risorgimentali del primo Verdi ma che non perde mai morbidezza espressiva e sostegno al canto; anzi, la levigatura del suono ha reso le pagine sinfoniche di assoluta bellezza.
Buona la prestazione del coro del Comunale diretto da Andrea Faidutti e delle voci bianche preparate da Alhambra Superchi.

Dario Solari è un  Macbeth dalla voce morbida, salda e sonora, ampia e ben emessa come si conviene a un baritono “verdiano”. Riccardo Zanellato ha convinto come Banco con un canto curato e il verso scolpito. Jennifer Larmore è Lady Macbeth, le cui eccellenti intenzioni interpretative prevalgono sulla qualità timbrica e sulla resa vocale (suggestiva la scena della lettera con la voce registrata ed echeggiante). Ottimo il Macduff di Roberto De Biasio: la voce è pulita ed estesa e non fatica nell'acuto che risulta luminoso e controllato.
Con loro Gabriele Mangione (Malcom) e Marianna Vinci (Dama). Completano il cast, indistinti nell'ombra: Alessandro Svab (Medico), Michele Castagnaro (Domestico e Prima apparizione), Sandro Pucci (Sicario), Luca Visani (Araldo), Valentina Pucci (Seconda apparizione), Annalisa Taffetani (Terza apparizione), Gianluca D'Agostino (Duncano), Valentina Vandelli (Fleanzio) e i mimi Fabio Magnani, Giorgia Polloni, Gabriele Reboni, Federico Vacirca e Damiano Ferretti.

Teatro esaurito, pubblico attentissimo, molti applausi durante la recita e un trionfo alla fine.

Il 2013 è un anno importante per il Comunale di Bologna, che compie 250 anni: primo teatro pubblico italiano, costruito in uno Stato pontificio dove la maggior parte dei teatri era privata, lasciata ai cittadini consorti (soprattutto nelle confinanti Marche, dove ancora oggi sono talmente numerosi da costituire la maggior concentrazione al mondo per numero di abitanti). Eppoi il bicentenario di Verdi e Wagner, il secondo particolarmente legato a Bologna, nominato cittadino onorario dalla città che ha ospitato quasi tutte le prime italiane delle sue opere. Macbeth e L'olandese volante aprono questa stagione che vede anche in cartellone Il trionfo di Clelia di Gluck, che il 14 maggio 1763 inaugurò la  sala del Bibbiena.

Visto il
al Comunale - Sala Bibiena di Bologna (BO)