Der Horatier, scritto e portato in scena tra il ‘72 e il ‘73, appartiene a quel segmento della produzione di Heiner Muller, che comprende anche la riscrittura del Filottete di Sofocle (1966) e il Prometeo di Eschilo (1969), nel quale il drammaturgo dell’ex Germania dell’Est approda alla classicità greca e latina, recuperandone temi che sembravano ormai relegati a sterili esercizi di filologia e nei quali invece egli intravede spiragli di assoluta modernità. Il contrastato rapporto tra Muller e il paludato regime della Germania Orientale si risolve, in quegli anni, in una fuga nel passato, tra miti ancora capaci di un’universalità che invece il soffocante governo di Pankow non esita a cancellare , relegando il dibattito politico ed etico nell’alveo di mediocri cancellerie politiche e club di intellettuali compiacenti. La storia degli Oriazi e Curiazi, narrata da Tito Livio, aveva già attratto alla metà degli anni ’30, in piena Germania nazista, l’attenzione di Brecht che ne aveva fatto l’ultimo dei suoi drammi didattici, anzi una “commedia dialettica per fanciulli”, destinata ad illustrare la futilità della lotta tra uomini, quando essa avviene per sola brama di potere e senza supporti ideologici. Muller fa altro, al rutilante e, a tratti, macchiettistico mondo brechtiano oppone l’intimità di un monologo: la vicenda dei tre fratelli romani contrapposti ai loro omologhi di Albalonga viene in tal modo ricondotta nelle forme di una riflessione sofferta e personale. Matuta Teatro affida il compito di persona loquens ad un macellaio, interpretato da Titta Ceccano che insieme a Julia Borretti firma anche l’ideazione e la regia dello spettacolo, che manovrando abilmente coltelli, come la sua routine di sgozzatore di bestie richiederebbe, si cala in quel bagno di sangue che fu prima lo sterminio dei cinque fratelli e poi l’uccisione da parte dell’ultimo Orazio di sua sorella che, innamorata di uno dei Curiazi morti, non si rassegnava alla perdita del suo amore. In scena, immerso in una costante penombra interrotta a sprazzi da tenui tagli di luce, il macellaio manovra, a metà strada tra burattinaio e ventriloquo, due fantocci, il primo è l’Orazio sopravvissuto, acclamato dalla folla, il secondo è la sorella che di lì a poco sarà uccisa. Il suo fantoccio, dunque, presto scompare e rimane, compagno del narratore, solo quello dell’Orazio salvatore di Roma, ma anche assassino del suo stesso sangue. Il racconto prosegue, scandito dalla chitarra e il kazoo di Roberto Caetani, tra filastrocche, quasi cunti popolari, che si ripetono ossessivamente e un linguaggio a tratti surreale che declina in una sorta di patois ciociaro. Quale deve essere, allora, il destino dell’Orazio salvatore di Roma? L’alloro destinato ai padri della patria o la scure che punisce gli assassini? E’ il merito che estingue la colpa o la colpa il merito? Le schiere romane sono divise, il macellaio, quasi novello Pilato, racconta e al tempo stesso ascolta le voci che si confondono, il ritmo incalza e la soluzione porta in sé qualcosa di schizofrenico: l’Orazio sarà coronato da alloro, ma immediatamente dopo giustiziato, il suo corpo innalzato dalle truppe sugli scudi in segno di onore, ma il cadavere sarà poi gettato ai cani perché colpevole di aver ucciso un essere umano senza motivo. Le verità si accavallano, in una dimensione dal sapore pirandelliano Titta Ceccano ripete a se stesso e a tutti che “ci sono molti uomini in un uomo solo”, una verità che ne contiene molte altre, ribattuta all’infinito tra picchi ritmati e toni stanchi da nenia, mentre ritorna allo sciabolare delle sue lame e la luce, spegnendosi, riconsegna il palcoscenico al buio iniziale. Spettacolo essenziale ed efficace, la coppia Borretti-Ceccano consegna tutto alla dimensione affabulatoria dell’unico personaggio in scena, macellaio-aedo, macellaio-messaggero tragico, macellaio-cronista d’assalto che ha il compito di narrare un mito che è anche storia attuale. Titta Ceccano si cala nel suo ruolo senza sbavature, assecondando il ritmo della narrazione, ma mantenendo un distacco quasi epico, per dirla con le parole di Brecht. I manichini-fantocci, sufficientemente inquietanti, sono infine di Jessica Fabrizi.