Tra le costanti del cartellone del Teatro La Fenice di Venezia, Madama Butterfly si inserisce come uno dei tasselli fondanti la tradizione, da sempre intimamente legata all’opera lirica. La messinscena, ideata nel 2013, rappresenta la prima collaborazione con l’Esposizione internazionale d’Arte della Biennale, evento tra i più rinomati al mondo. Questa esperienza singolare, proseguita ora con Norma (recensione presente nel sito), costituisce una tappa importante nella programmazione più recente della fondazione veneziana.
La presenza dell’artista giapponese Mariko Mori risalta il respiro internazionale della produzione; il suo operato, come scenografa e costumista, bada all’essenzialità legandosi intimamente alle simbologie minimali e allegoriche. A partire dal finale primo, domina sulla scena una grande struttura, somigliante al simbolo matematico dell’infinito, archetipo futurista della casetta di Butterfly e totem per l’intera vicenda. Il bianco risalta incontrastato, costumi compresi, stridendo nel confronto tra civiltà orientale e occidentale. Il regista Àlex Rigola tralascia alcuni spunti offerti dal lavoro della Mori e sovente rischia di ridurre a gesti stereotipati gli atteggiamenti dei personaggi che, alla lunga, appaiono rigidi se non statici. Albert Faura, light designer, è impegnato ad illuminare lo spazio spoglio e bagnato di luce.
La compagnia canora ottiene risultati alterni nella lettura della partitura articolata e intrisa di espressività. La russa Svetlana Kasyan, Cio-Cio-San, è dotata di uno strumento stentoreo e dal colore potenzialmente piacevole, tuttavia manca la maturità per dar vita alle articolate angosce della fanciulla giapponese, per renderle efficacemente in scena e per superarle grazie alla tecnica che dev’essere rifinita, al pari dell’oscura dizione. Il codardo tenente F.B. Pinkerton è interpretato da Vincenzo Costanzo; il giovanissimo tenore italiano appare in difficoltà nella parte che poco si adatta ad una vocalità come la sua, da considerarsi ancora non pienamente formata: il ruolo viene affrontato con alcuni incidenti di percorso, senza grande espressività e con palesi problematiche d’emissione, perlopiù di fibra. Un po’ più accurato il console Sharpless di Marcello Rosiello, artista dalla presenza attendibile e dal fraseggio personale. Manuela Custer, Suzuki sempre in scena, rivela enfasi scenica ma più di qualche asperità vocale. Tra gli altri risalta Lo zio bonzo di Cristian Saitta, dotato di florida e allettante vocalità. Completano il cast Nicola Pamio, esuberante Goro, Julie Mellor, Kate Pinkerton, William Corrò, Il principe Yamadori, Ciro Passilongo, Yakusidé, Emanuele Pedrini, Il commissario imperiale, Franco Zanette, L’ufficiale del registro, Misuzu Ozawa, La madre di Cio-Cio-San, Emanuela Conti, La zia e Loriana Marin, La cugina.
Il concertatore Jader Bignamini è in grado di fondere abilmente la vena sinfonica con la narrazione dell’opera pucciniana. La sua lettura è corrusca ma attenta ai dettagli, elegante nonostante gli abbandoni passionali. Salvo qualche scollamento con il palcoscenico, il risultato è apprezzabile. È udibile il valore dell’amalgama orchestrale, plasmato dalla valida prova della compagine veneziana, che spicca, tra gli altri momenti, nell’appassionato intermezzo sinfonico tra la prima e la seconda parte dell’atto secondo. Non inappuntabile la prestazione del Coro del Teatro La Fenice istruito da Claudio Marino Moretti.
Il pubblico esprime convintamente il proprio apprezzamento per produzione e interpreti.