Lirica
MADAMA BUTTERFLY

Butterfly e la scultura moderna

Butterfly e la scultura moderna

Passati ormai per sempre i tempi della paccottiglia esotica dal sapore kitsch, di fronte ad un titolo come "Madama Butterfly" ho l'impressione che si prendano sempre due soluzioni opposte, senza che quasi esistano vie di mezzo. Si cerca di ricreare un Oriente stilizzato, ma pur sempre evocativo (la bianca casetta di legno e carta, qualche  ramo di ciliegio, un accenno di lanterne) come fece ad esempio Pizzi a Macerata 2009. Oppure si sceglie il nulla o quasi, puntando tutto sulla recitazione e sulla fantasia dello spettatore. Mi viene alla mente l'incantevole spettacolo di Bob Wilson, tutto un gioco di luci: una scena tutta vuota tranne un piccolo ponticello, dove persino la tazzina di thè offerta da Suzuki diveniva immaginaria; e con questa "Butterfly" di Vivien Hewitt non siamo in realtà lontani da quella estrema presa di posizione. L'allestimento venne pensato per il Festival Puccini 2000 - e poi ripreso e portato molto in giro anche all'estero - inaugurando la serie degli interventi «Scolpire l'opera» affidati ed eminenti artisti del panorama internazionale. Nel caso presente, il giapponese Kan Yasuda i cui candidi, possenti manufatti in pietra - bellissime 'Tenmoku' e 'Tensei', le doppie porte del finale - vengono calati in scala maggiorata nel dramma pucciniano. Magia della scena: pur non avendo la benché minima pretesa di ricreare un'atmosfera orientale, né tantomeno giapponese, nondimeno grazie alle intese illuminazioni di Fabrizio Ganzerli quelle rarefatte sculture plasmano un contenitore perfettamente conveniente alla visione registica della Hewitt, ispirata al teatro Nô e quindi tutta imperniata sulla forte pregnanza della recitazione. Null'altro stava in quel candido spazio inclinato, salvo una bassa piattaforma - come fosse un'isola, un rifugio - e qualche tavolino trasparente per dare l'idea di un tavolino o di una seggiola. Quanto ai costumi, Regina Schreker dopo un'attenta ricerca sulle foto d'epoca ha operato scelte molto originali, riducendo a forme stilizzate kimono e costumi coloniali, e scegliendo per i tessuti una gamma cromatica assai limitata. Va da sé che le riflessioni registiche devono fare i conti con gli interpreti a disposizione: così, in questa recita ferrarese, a fronte di una Cio-Cio-San esemplare per intensità recitativa, ci è toccato in sorte un Pinkerton abbastanza inespressivo come quello di Sung Kyu Park, che inoltre canta a modo suo - cioè sempre sfogato, uniforme, senza mezze tinte, con le vocali fastidiosamente aperte. Un vero peccato, anche perché Marzio Giossi - nei panni del console Sharpless - ed Hermine-Claude Hauguenel - in quelli di Suzuki -  presidiavano autorevolmente il resto della scena, con una competenza vocale rispettabile e con una persuasione da attori consumati. Ma il centro dell'attenzione era Lei, la tenera farfalla che infiamma i sensi del fatuo tenente yankee: e qui Donata D'Annunzio Lombardi ha superato sé stessa, con bella gamma di accenti e di espressioni, delicata ma senza leziosaggini, tragica ma composta nel finale. Quel che poi conta di più, sotto le voci serpeggiava il sontuoso tappeto sonoro intrecciato dall'Orchestra del Festival Puccini, opportunamente sollecitata dalla bacchetta autorevole ed attenta di Roberto Zarpellon. Lirico nel fraseggio, composto ed equilibrato, il maestro ha diretto l'opera in molte riprese viareggine, e quindi si può considerare oramai un qualificato esegeta del lessico pucciniano.
Non vogliamo sottovalutare l'apporto fondamentale delle parti di contorno (attenti: questo è un termine che in Puccini non deve giammai suonare riduttivo!), e cioè Mauro Buffoli (Goro), Abramo Rosalen (lo zio bonzo), Giovanni Guagliardo (Yamadori), Claudio Ottino (il commissario), Jorge Aguilera (l'ufficiale del registro), Lucia Dessanti (Kate). Né dobbiamo trascurare i giusti elogi per la buona prestazione del coro del Festival Puccini, preparato da Stefano Visconti.

Visto il
al Comunale di Ferrara (FE)