Lirica
MADAMA BUTTERFLY

INFINITA SOLITUDINE

INFINITA SOLITUDINE

Fatta eccezione per le cose di gioventù - “Le Villi” e “Edgar”, rimaste più o meno tali e quali - ogni opera pucciniana da “Manon Lescaut” in poi è stata oggetto di ripensamenti da parte del compositore lucchese. E più d’ogni altro, travagliato fu il cammino di “Madama Butterfly”, caduta come tutti sanno alla Scala nel 1904 e quindi risorta a Brescia nel 1905, dopo che Puccini s’era prodigato in una profonda riconsiderazione della partitura. Ma i rimaneggiamenti di “Madama Butterfly” non finirono qui: continuarono nei successivi adattamenti di Londra e Parigi, sino alla definitiva versione del 1907, codificata dalla riduzione per canto e piano pubblicata da Giulio Ricordi. La stessa versione che premurosamente ci viene indicata, a scanso di equivoci (quali?), in calce alla locandina di questo nuovissimo allestimento veneziano, realizzato dalla Fenice nell’ambito del Festival della Musica di Venezia – in parole povere, la Biennale Musica 2013 – e che vede scenografia e costumi affidati all’artista giapponese Mariko Mori, scultrice e designer di fama internazionale, mentre la regia è di Àlex Rigola, responsabile della Sezione Teatro della Biennale. Molto bello, sicuramente, ed apprezzato mi pare da tutti visti i grandi applausi prodigati; ma, a dire il vero, non tutto foriero di novità. E questo perchè nell’insieme questa “Butterfly” rammenta da vicino l’edizione del capolavoro pucciniano curata nel 2001 da Robert Wilson nello spazio provvisorio del PalaFenice; in realtà, uno spettacolo nato qualche anno prima all’Opéra Bastille, e poi coprodotto con il Comunale di Bologna. Eguale è l’intento di base, un nitore visivo che nega ogni esotismo, ed una recitazione asciutta, quasi simbolica. Mariko Mori ricrea un ambiente astratto e indefinito attraverso il posizionamento d’una enorme tela bianca che dallo sfondo scende in avanti, e rinuncia ad ogni orpello in scena, tranne due immense sue sculture collocate rispettivamente nel primo atto e nella prima scena del secondo: la prima, una specie di grande nastro di Moebius appeso in alto a richiamare il  concetto di infinito, la seconda posata a terra a simboleggiare l’abbraccio avvolgente di una madre. Solo l’epilogo sopravviene rapido in uno spazio lasciato assolutamente vuoto, come disperatamente vuoto è divenuto il cuore di Cio-Cio-San. Anche i costumi uscivano dalla matita dell’artista nipponica, abiti elegantissimi nel disegno e puliti nel taglio, tutti colorati in tenere tonalità pastello: deliziosamente soavi quelli femminili, quelli maschili simili a tuniche sacerdotali, severi e castigati. Iperbolico e sofisticato nel disegno solo l’abito nuziale della giovane geisha, con un lungo mantello e due sbuffi alle maniche simili ad ali di farfalla, che però lasciano poi spazio solo ad una bianca sottoveste. E pazienza se un Goro dai capelli biondi, vestito in bianco e con occhialoni da sole gialli, pareva l’involontaria caricatura di Flavio Briatore. Curioso l’hair design siglato «milliner by Kamo», creato cioè da Katsuya Kamo: acconciature-parrucche avveniristiche ma con qualche memoria della tradizione giapponese, realizzate secondo l’abitudine di Kamo – ‘artista’ scoperto da Karl Lagerfield - in un materiale povero come carta.
Regia nelle mani di Àlex Rigola, come abbiamo detto: il quale riesce a muoversi in punta di piedi, con molta sensatezza, ma senza rinunciare ad un denso, incisivo impatto drammatico. Ma anche qui, l’ombra di “Bob” Wilson pare in qualche modo aleggiare, per gli evidenti richiami alla grande tradizione giapponese - il teatro Nō nei gesti essenziali ma preganti della protagonista, di Suzuki, delle amiche; il genere Kabuki per la carica umorale di Goro, del cuoco, di Yakusidé – ma soprattutto molta, moltissima attenzione alle esigenze della musica. Molto efficace pure l’impiego di tre eteree danzatrici in veste di cameriere - ma non solo - per conferire un senso di movimento alle scene, e ‘doppiare’ i sentimenti della protagonista; il tutto, peraltro, senza mai cadere in vacui giochi coreografici. Il coro a bocca chiusa è stato eseguito non dietro le quinte, bensì in sala, con i coristi schierati ai due lati della platea. Fonicamente, risultato seducente per lo spandersi libero delle voci nello spazio della Fenice; scenicamente, poco ortodosso e forse criticabile, però a me è piaciuto. Ineccepibile il light-design di Albert Faura; bello di per sé, ma a mio avviso poco pertinente al racconto mi è parso il lungo video che sostiene la bella pagina strumentale prima del levar del sole sulla baia di Nagasaki, un universo lontano che ricordava  films come “Stars Wars”, con miriadi di stelle in viaggio ed il nascere di nuove galassie; ed un pochino kitsch m’è parsa la proiezione sullo sfondo di svolazzanti farfalle colorate dopo il suicidio della protagonista.
Dal punto di vista musicale qualche obiezione è inevitabile, perché non tutto filava come doveva. A parte qualche enfasi sonora subito rientrata, Omer Meir Welber ha diretto con forte senso teatrale, e molta attenzione alla partitura. Ha colto appieno tutto quanto fa di “Madama Butterfly” un’opera di svolta, non più figlia dell’Ottocento come “Manon”, “Bohéme, “Tosca”, ma già tutta proiettata nel nuovo secolo. Per farla breve, ha cercato il senso di novità che Puccini intendeva infodervi, e gli ha reso piena giustizia consegnandoci tutte le innovative soluzioni armoniche e timbriche profuse.
Passando agli interpreti, mi ha un pochino deluso la Cio-Cio-San di Amarilli Nizza, non sempre in grado di trasmettere le giuste vibrazioni emotive dal momento che il canto si dipana con una certa uniformità, sia nel carattere sia nelle dinamiche - sfumature e mezze voci, se ne son sentite poche - e anche perché volte la voce purtroppo trascende nello sfogato. Il giovane tenore basco Andeka Gorrotxategui – protagonista dei ”Masnadieri” veneziani di qualche mese fa - ha una gran bella voce, potente nello squillo ed omogenea nell’insieme: il suo Pinkerton era irruente nella vocalità, nervoso e irrequieto, e questo va bene; il personaggio però risultava nell’insieme monodirezionale, ed affatto memorabile. Esemplare lo Sharpless di Vladimir Stoyanov, sia vocalmente sia nel pieno carattere infuso alla figura; molto bene la Suzuki di Manuela Custer, parte secondaria qui portata ad un livello di grande professionalità; buono lo Yamadori di William Corrò; modesto invece il Goro vocalmente ondivago di Nicola Pamio. Nelle parti di contorno abbiamo trovato Riccardo Ferrari (lo zio Bonzo),  Ciro Passilongo (Yakusidé ), Emanuele Pedrini (il commissario imperiale), Enzo Borghetti (l’ufficiale del registro), Misuzu Ozawa (la madre di Cio-Cio-San), Marta Codognola (la zia) e Sabrina Mazzamuto (la cugina), Julie Mellor (Kate Pinkerton); tutti a posto. Buona la prova del coro, preparato da Claudio Marino Moretti. Le parti danzate erano affidate a Inma Asensio, Elia Lopez Gonzalez, Sau_Ching Wong.
Il secondo cast allinea nelle parti principali Svetlana Kasyan, Giuseppe Varano, Elia Fabbian, Rossana Rinaldi.

Visto il
al La Fenice di Venezia (VE)