Sandro Pasqualetto sceglie per questa Madama Butterfly, allestita per il Teatro del Giglio di Lucca ove è stata in cartellone nel novembre dello scorso anno, un’ambientazione rigorosa, pulita, priva di fronzoli, nella quale dominano le linee rette, rappresentate dalla ‘casa a soffietto’ di Cio-Cio-San e Pinkerton che, con le sue pareti scorrevoli e l’intelaiatura di legno chiaro, egemonizza la scena per tutta la durata dell’opera. Da un lato il regista sceglie di tratteggiare un Giappone immobile con tutta la sua cultura millenaria, a tratti ieratica e atemporale, dall’altro suggerisce invece, attraverso la gestualità non priva di sicumera di Pinkerton, la dinamicità del nuovo che viene da lontano, non esente da una indiscutibile superficialità, apparentemente libero da qualsiasi costrizione, ma che alla fine delude e snatura. Due mondi all’interno dei quali Cio-Cio-San non sa gestirsi: il suo rifiuto della tradizione, nella quale è stata educata, non è reale o per lo meno non è possibile nell’interezza se non nella sua fantasia, tanto che, nel compiersi del rituale finale dello jigai (qui correttamente rappresentato ivi compreso l’atto di legarsi le ginocchia che la donna compiva per rimanere composta anche dopo la morte), la protagonista torna al suo mondo originario e con esso si rappacifica.
Tutto è ridotto all’essenziale: manca il giardino, rappresentato da un semplice ramo di pesco in fiore che Butterfly invasa e da pochi petali che scendono dall’altro; gli arredi sono assenti; le luci, man mano che la vicenda procede si fanno sempre più fredde fino a divenire quasi livide sull’intenso finale in cui la protagonista intona il suo addio al figlio senza che quest’ultimo sia presente perché sottratto da Suzuki, accortasi delle intenzioni della padrona che procede al rito assistita da due mute ancelle.
Amarilli Nizza è una Butterfly in crescita durante la serata, un poco penalizzata nel corso del primo atto da una gestualità a tratti eccessiva e stereotipata, forse richiesta dalla regia, ma intensissima nel suo coraggio di donna, ieraticamente consapevole del proprio destino, quando sul finale l’espressione del dolore si fa più intensa e la coinvolge anche intimamente; la tecnica è più che solida, la voce corposa nei centri ma con l’acuto che svetta sicuro, i piano e pianissimo di grande intensità. Giustamente determinato, sebbene incapace di gestire le proprie responsabilità, il Pinkerton di Vincenzo Costanzo, giovanile nella sua baldanza e scenicamente efficace; il timbro è gradevolissimo e la potenza più che adeguata, qualche piccolo problema di appoggio di fiato nella zona di passaggio, che talvolta inficia leggermente l’acuto, appare facilmente superabile. Totalmente convincente la Suzuki di Nozomi Kato, ancella riservata e schiva, ma anche amica che sa ben leggere l’animo della sua padrona: l’emissione è garbata e sempre perfettamente calibrata, il nitore timbrico pregevole. Fraseggio curato per lo Sharpless di Mansoo Kim. Insinuante ma non macchiettistico il Goro di Luca Casali. Con loro il massiccio e quasi primitivo zio bonzo di Cristian Saitta e l’imponente principe Yamadori di Alessio Verna.
Direzione incisiva, volta alla ricerca di una certa corposità e rotondità di suono per Valerio Galli alla guida dell’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna; evidente la spinta verso un costante dialogo col palcoscenico, così da ottenere quella fluidità narrativa che ha il suo apice nella tensione lirica del finale. Adeguata la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza.