Come la “Cavalleria rusticana” d’esordio, anche Madama Butterfly, secondo appuntamento del “San Carlo Opera Festival”, reca la firma di Pippo Delbono. Gli ingredienti essenziali dell’allestimento pucciniano sono gli stessi già impiegati per la partitura di Mascagni, qui riproposti con diverso dosaggio e in combinazioni solo in parte nuove. Anche questa volta il regista recita in platea un breve prologo per additare nel tema dell’attesa la cifra caratterizzante e il significato ultimo dell’intera opera che sta per cominciare. Analogamente, prima che il sipario si alzi sul secondo atto, egli si ripresenta sotto l’occhio di bue e declama - con scelta un po’ qualunquista - una versione abbreviata di “Cet amour” di Prevert. Delbono si intrude poi nella rappresentazione stessa per sottolinearne i momenti cruciali: nel primo atto presenzia alle nozze di Butterfly e Pinkerton e ricompare nei passaggi più appassionati del loro dialogo notturno; nel secondo atto ascolta con trasporto “Un bel dì vedremo” e registra con apprensione la possibilità, ventilata da Sharpless, che Pinkerton non faccia più ritorno; nel terzo atto, infine, insieme a Bobò (l’attore sordomuto che compare in molte sue creazioni) accompagna il figlio di Cio-cio-san in molteplici perlustrazioni del palcoscenico. Passando dal mimo alla danza, dal gesto lieve all’esagitazione scomposta, Delbono agisce come una sorta di mediatore tra la scena e la platea. Si crea così una curiosa triangolazione che moltiplica i piani e i punti di vista. Lo spettatore osserva l’azione principale e, al contempo, l’attore che la attraversa, la contamina e la disvela. Resta da capire quanto la diffrazione giovi all’interpretazione dell’opera o non rimanga piuttosto un’operazione gratuita, che nella presente occasione non ha neppure il pregio della novità. A ciò si aggiunga che Delbono gestisce il movimento dei protagonisti e delle masse prescindendo quasi sempre da ciò che le parole indicano e, soprattutto, da ciò che la musica esprime. Il conseguente scollamento compromette troppo spesso l’intimo connubio di senso, suono e gesto che caratterizza la scrittura di Puccini.
L’impatto visivo dello spettacolo è marcato da un’invenzione scenografica più che minimalista. Delbono immagina un unico contenitore di abbagliante biancore, nel quale le differenti ambientazioni sono al più suggerite dal mutevole gioco della luce. Tutti i dettagli risultano dunque cancellati, e solo il secondo atto accoglie blande allusioni figurative nelle proiezioni che scorrono sul fondo del palcoscenico (un mare ora sereno e ora agitato che rappresenta l’oscillare di Butterfly tra la speranza e il dolore). Con tanta essenzialità contrastano i costumi di Giusi Giustino, di foggia convenzionale.
Il punto di forza dello spettacolo è senza dubbio la conduzione impeccabile di Nicola Luisotti (subentrato in extremis a Tito Ceccherini), che il pubblico del San Carlo ha già applaudito più volte come efficace direttore verdiano e che in questa occasione si è rivelato ottimo interprete del capolavoro di Puccini. Sin dalle prime note il maestro ha fissato con chiarezza le coordinate della sua lettura raffinata e attenta: energia, perfetto controllo delle sonorità, pulsazione mobilissima ma mai sfilacciata, espressività senza sbavature. Raffaella Angeletti ha donato varietà di accenti a Butterfly senza però centrare del tutto il personaggio, che vive di equilibri fragilissimi; durante l’intera performance, inoltre, il soprano torinese ha cantato tenendo lo sguardo rivolto al podio, il che non ha certo giovato alla fluidità e alla credibilità del gioco scenico. Spavaldo e pieno di energia il Pinkerton di Vincenzo Costanzo, che tuttavia a tratti non riesce a conciliare slancio e precisione. Un vivissimo plauso merita la Suzuki di Anna Pennisi, che ha brillato per la sonorità calda e piena e per l’interpretazione appropriata. Sullo stesso livello lo Sharpless di Marco Caria dal bel timbro e dall’emissione sicura. Buono lo zio Bonzo di Abramo Rosalen, apprezzabile per potenza e temperamento. Abile nell’evidenziare l’odiosa malizia di Goro ma non del tutto convincente sotto il profilo vocale è apparso Andrea Giovannini. Completano il cast Nino Mennella (Yamadori), Alessandro Lerro (il commissario imperiale), Miriam Artiaco (Kate Pinkerton), Paolo Marzolo (l’ufficiale del registro), Giuseppina Benincasa (la cugina) e Clorinda Vardaci (la madre). Buona la prova del coro (guidato da Sergio Caputo), che tuttavia – secondo una consuetudine ormai invalsa – ha cantato con volume troppo sottile (alle soglie dell’inudibile) molti dei segmenti prescritti in lontananza e fuori scena.
Al termine dell’intervallo tra il primo e il secondo atto, Nicola Luisotti ha avuto l’ingrato compito di comunicare alla sala la scomparsa del maestro Lorin Maazel, avvenuta pochi minuti prima. Il pubblico ha salutato il grande direttore con un minuto di silenzio e un calorosissimo applauso.