Parma, teatro Regio, "Madama Butterfly" di Puccini
L'ILLUSIONE E IL DRAMMA DI UNA PERSONA SOLA
Ho un punto fermo in tutte le Butterfly che vedo, quella, contestata e criticatissima, che Henning Brockhaus (scene di Csaba Antal e costumi di Nanà Cecchi) ha allestito allo Sferisterio di Macerata nella stagione 1999. Il palcoscenico era un'immensa, bianca distesa di sale, le comparse barboni avvolti nei cartoni. Il regista aveva, secondo me assai efficacemente, concretizzato lo stato d'animo di Cio-Cio-San, adolescente giapponese che si innamora perdutamente del tenente americano Pinkerton e per lui rinuncia alle sue radici, tradizioni, usanze e viene rinnegata dalla famiglia. Però, se Cio-Cio-San è convinta di avere trovato l'uomo della sua vita (e per questo le rinunce, seppure totali e radicali non le pesano, "Sono tua per la vita"), Pinkerton invece cerca solo una storia passeggera, per un momento, per il breve tempo che la sua nave sarà a Nagasaki (alla richiesta del console se egli è innamorato risponde "Non so, non so ... nel giorno in cui mi sposerò con vere nozze..."). Infatti presto per lui è tutto finito, tutto alle spalle. Un nuovo giorno, un nuovo porto, una nuova vita, una nuova compagna di vita. Mentre la povera ragazza attende. A casa. Per anni. Da sola. Sogna ancora che Pinkerton torni. E Pinkerton un giorno torna. Ma solo per annunciarle (anzi, bastardo, per farle dire da altri) che si è sposato con un'americana e che vuole portarsi in patria il figlio che tre anni prima ha avuto da Cio-Cio-San. E lei precipita nella disperazione più totale, rimasta sola nella vita e nel cuore. Di fronte alla realtà, così diversa da come credeva, Cio-Cio-San si uccide. L'idea dell'allestimento maceratese mi era piaciuta tanto perchè esprimeva perfettamente il sentire della protagonista, divenuta straniera nella sua stessa patria, estranea tra i suoi stessi familiari. Sola, completamente. Il deserto di sale: niente ricorda di più l'aridità dell'anima, il prosciugamento dei sentimenti, l'arsura feroce di chi è solo. Homeless che dormono per terra avvolti negli scatoloni: niente ricorda di più la situazione di chi è solo, "homeless dell'anima", di chi ha capito di non potere vivere senza una persona, epperò deve vivere senza quella persona, perchè altri hanno voluto così (ovviamente non per scelta libera e volontaria). Nulla ha più un senso, nulla serve più, tutto è superfluo. Come per un barbone, l'unico compito è esistere, l'unica famiglia è la strada. Cio-Cio-San cede solo davanti alla realtà, solo quando vede la moglie americana. Il senso dell'attesa, inutile, che non approda a nulla. Una vana attesa, la cui consapevolezza può solo portare alla ineluttabilità del gesto finale.
Puccini sottolinea con l'ambientazione e la raffinatezza dei suoni lo scontro tra due anime, lo scontro tra due mondi, oriente ed occidente, lo scontro tra due diversità. Nel comportamento di Cio-Cio-San si realizza l'incompatibilità di due luoghi (e anime) così estremi e alla fine lei dovrà soccombere, per la beffa, tragica ed amara, di una speranza irrealizzabile. Sostanzialmente è questo il motivo per cui la considero la più bella opera di Puccini, perchè è lo specchio di tante anime, come è lo specchio dell'anima di questo fragile artista del decadentismo, che non aveva più nessuna certezza e nessun ideale a cui appoggiarsi fiduciosamente e che era sovrastato da un'oscura sensazione di fine incombente. Così ha concepito questa opera di grande modernità per linguaggio e tecnica musicale, spietata fino alla efferata crudeltà, ponendosi come anatomia di un suicidio, come precoce, spietata e lucida analisi del percorso di un'anima sensibile.
La messa in scena del Regio di Parma è rispettosa del dettato pucciniano, nella volontà di ricercare la verità più intima e profonda dell'opera attraverso un'adesione fedele e minuziosa a tutte le indicazioni di cui Puccini ha disseminato lo spartito.
L'edizione suonata dal maestro Giuliano Carella è sostanzialmente quella definitiva del 1907 ma integrata, per cui abbiamo la legatura del secondo al terzo atto, unendo il coro a bocca chiusa al successivo intermezzo musicale a dare continuità alla lunga notte di attesa (un momento particolarmente emozionante) e con l'aggiunta dell'aria "Addio fiorito asil", con cui Pinkerton, codardo, vigliacco e ipocrita, piange lacrime di coccodrillo e si sottrae all'incontro chiarificatore.
Nel ruolo del titolo Hui He ha fornito una buona prova, voce potente, timbricamente interessante, che riesce a modularsi assumendo un colore più chiaro o più scuro a seconda dei momenti (questo ha compensato le carenze di dizione e di recitazione). Ottima il mezzo Chiara Chialli, che ha dominato la scena con la sua bella voce scura e soprattutto con una capacità attoriale straordinaria: una interpetazione concentrata su piccoli e significativi gesti, curatissima, assai elegante e raffinata, come quando con la mano sinistra ripiega il kimono sotto le gambe nell'inginocchiarsi, oppure quando segue lo svolgersi degli eventi con movenze del capo e delle mani, o ancora quando, con un gesto preciso e perentorio, interviene a difesa di Cio-Cio-San rinnegata dai parenti, lei, Suzuki, che le rimarrà vicino e fedele sino alla fine, come un'ombra protettiva. Vincenzo La Scola è stato un Pinkerton molto yanqui, con fare sicuro e voce solida, completata da un fraseggio accurato e da un'emissione controllata (il ruolo è nel suo repertorio abituale). Stefano Antonucci, dall'ottima presenza scenica, ha reso Sharpless in modo elegante, misurato, e sensibile, dall'iniziale amicizia "di ruolo" con il tenente alla successiva comunione spirituale "di anima" con la geisha. Il resto del cast non è stato solo di contorno, anzi ognuno ha saputo proporre con molta efficacia il proprio personaggio, tra cui Francesca Francalanci, una Kate Pinkerton che è solo una vaga presenza ma proprio per questo ancora più tragicamente incombente e lo zio Bonzo di Alessandro Calamai, irruento e violento, in precario equilibrio su scomodi zoccoli orientali.
L'orchestrazione è stata resa da Carella con finezza, dote peraltro propria dell'Orchestra del Regio, esaltando i passaggi particolarmente raffinati, sia riguardo al colore orientale sia per creare atmosfere personalissime. Ad esempio all'entrata di Cio-Cio-San nel primo atto la voce si fa sempre più vicina in un geniale giro di armonie basato sulla scala esatonale, con sotto uno strumentale sottilmente cameristico. Infatti qui l'orchestra è già al completo, ma ha un suono trasparente, evanescente, ottenuto frammentando l'organico e usando i vari gruppi in modo differenziato (la sonorità dei corni è attenuata dalla sordina, un violino, una viola e un violoncello solisti si distaccano dalla massa degli archi, mentre le file dei violini e delle viole sono suddivise in sezioni più piccole). Il suono è impalpabile, con una strumentazione che nella partitura raggiunge vette di virtuosismo, come nell'introduzione alla conclusione della tragedia o subito prima, nell'accompagnare il coro a bocca chiusa. Il coro del Regio, prevalentemente femminile, ha fornito una prova eccellente proprio nel coro a bocca chiusa, essendo, nella replica a cui io ho assistito, l'organico nella sua totalità, dopo le defezioni dovute alle condizioni di salute di alcune componenti.
Un'edizione dunque, firmata da Eike Gramss (scena fissa, chiara e luminosa, di Christoph Wagenknecht, costumi adeguati di Catherine Voeffray, luci realistiche di Ugo Benedetti) coprodotta dal Regio con il teatro del Giglio di Lucca, che ha degnamente celebrato i cento anni dell'opera, riassumendo il senso di un percorso umano breve e coerente. Nel primo atto Cio-Cio-San sogna che Pinkerton sia l'uomo della sua vita. Nel secondo atto Cio-Cio-San pensa che Pinkerton sia l'uomo della sua vita. Nel terzo atto, nel momento in cui viene abbandonata, Cio-Cio-San ha la certezza che Pinkerton è l'uomo della sua vita. E dunque ha la certezza che senza di lui non può vivere. La certezza che, da sola, la vita è inutile. E allora si uccide. Con dignità. Con onore.
Visto a Parma, teatro Regio, il 19 marzo 2005.
FRANCESCO RAPACCIONI