La Butterfly ora in scena al Festival Puccini è un allestimento del 2000 assente da diversi anni da Torre del Lago (ma rappresentato con successo in numerose tournées all’estero), che merita la riproposta in quanto particolarmente adatto a una rappresentazione all’aperto sul lago ed in quanto uno degli esiti più felici del connubio fra artista (scenografo) contemporaneo e opera pucciniana promosso negli anni dal Festival.
La regista Vivienne Hewitt e lo scultore giapponese Kan Yasuda accentuano l’universalità dell’opera ambientandola in uno spazio vuoto e astratto, depurato di quell’esotismo calligrafico caro alla tradizione, ma autenticamente “giapponese” per grazia e purezza formale. Il palcoscenico è un bianco piano inclinato aperto sul lago: la scena interagisce con l’ambiente circostante e le naturali variazioni della luce contribuiscono a scandire la progressione drammatica.
Nel primo atto due blocchi marmorei venati sembrano paraventi e i loro profili simmetrici evocano ali di farfalla; un grande masso rotondo sul limitare della scena prende vita sotto la luce del tramonto per accendere il duetto d’amore. La casa di Butterfly è una pedana allungata leggermente rialzata che la isola dal mondo esterno, dove ci sono sedute in plexiglas e pochi oggetti della memoria la cui presenza risulta straziante.
Le sculture interpretano il dramma alla luce del pensiero giapponese: “Ishinki” (il grande sasso) è cuore e anima di Butterfly, “Shosei” (volare) suggerisce la transitoria presenza sulla terra.“Tenmoku” è il passaggio impossibile, ovvero una porta quadrata dalla superficie bugnata con una colonna centrale sospesa nel vuoto che rappresenta il ricongiungimento dell’anima allo spirito, passaggio possibile solo in presenza di “Tense”, la porta aperta che scivolerà sulla scena inquadrando la morte di Butterfly.
Lo spazio bianco si tinge di sfumature diverse a seconda della situazione emotiva: sfumati toni del verde e del blu nel primo atto, tonalità cupe e intense (ruggine, ocra, fucsia, fino al rosso finale) nel secondo.
Il movimento scenico è armonico, carico di una ritualità rarefatta che si addice a una tragedia giapponese: candide fanciulle scivolano lungo la collina con ombrellini stilizzati, petali rosa si librano leggeri sostenuti dalla brezza del lago in una magica primavera dei ciliegi color fucsia, lumini evanescenti punteggiano con tocco impressionista l’oscurità durante il coro muto.
Anche i raffinati costumi della stilista Regina Schrecker, niente kimoni, ma taffetà bianchi, veli impalpabili e una simbolica tunica di tulle rosso per Butterfly, trasmettono un’ineffabile grazia rituale.
Amarilli Nizza, dal corpo longilineo e affusolato come quello di una danzatrice, è una Butterfly moderna di grande intensità interpretativa che reca in sé il germe della tragedia dal suo primo apparire; perfetta per la fragilità nervosa e delicata di un gesto che suggerisce un volo spezzato e un forte dolore esistenziale. Se pur non spicchi per doti timbriche, la sua Butterfly affascina per un canto duttile capace di suggestive mezze voci e una varietà di accento che rende pregnante ogni battuta.
Massimiliano Pisapia è un Pinkerton disinvolto e persino simpatico nella sua maschile superficialità e istintiva leggerezza. La voce luminosa è adatta al canto amoroso di cui ben rispetta le indicazioni di pianissimo e dolcezza e la chiara dizione esalta il canto di conversazione.
Ottimo Fabio Capitanucci nel ruolo di Sharpless per voce pastosa e precisa intonazione: la scena con Butterfly del secondo atto acquisisce forte spessore drammatico. Renata Lamanda è una Suzuki di voce ben timbrata. Mauro Buffoni è un Goro un po’ sopra le righe, lo Zio Bonzo ha i tratti orientali di Choi Seing Pil, Giovanni Gagliardo è un apprezzabile Yamadori. La giovane Eva Corbetta (una delle vincitrici di un concorso su you tube promosso dalla Fondazione) è una Kate Pinkerton dal volto nascosto da un velo come si conviene a un fantasma. Concludono adeguatamente il cast il Commissario Imperiale di Claudio Ottino e l’Ufficiale del registro di Jorge Aguilera.
Eve Queler propone una direzione sensibile ed equilibrata attenta a non prevaricare le voci, una lettura incline al morbido indugio che coglie gli aspetti più intimi, quasi esistenziali, della partitura. Penalizzato dall’esecuzione all’aperto e non sempre preciso l’intervento del coro diretto da Stefano Visconti.
Un pubblico numeroso ha tributato pieno consenso a uno spettacolo intenso e raffinato, di cui si consiglia la visione.