Ci sono spettacoli di segno forte che diventano dei “cult”, uno di questi è la Butterfly secondo Michieletto, spettacolo che aveva debuttato l’anno scorso (e di cui avevamo riferito) ora riproposto dall’ente torinese come si conviene a un classico. E un classico lo è: mai una Butterfly è stata così vera; via lacca, ventagli e fior di pesco, la storia, depurata dalle scorie di ambientazione oleografica, sconvolge per una crudeltà che non lascia indifferenti.
Damiano Michieletto (coadiuvato dalle scene di Paolo Fantin, i costumi di Carla Teti e le luci di Marco Filibeck) ambienta la vicenda in una metropoli asiatica dei nostri giorni, caratterizzata da giganteschi cartelloni pubblicitari dove campeggiano volti femminili e grafiche orientali, luci al neon, fast food, scale metalliche e strade sopraelevate, uno squallido sobborgo di periferia o un centro commerciale dove tutto è in vendita, anche Butterfly.
La scena comunica un senso di cruda miseria, ma Michieletto racconta con grande poesia e delicatezza l’amore e il dramma della sua eroina con un discorso scenico che non lascia nulla al caso e le battute del libretto, depurate da sentimentalismo di maniera, sorprendono per la disincantata modernità. Sarebbe troppo lungo citare ogni frase nel contesto creato dal regista, quello che importa è il risultato: per la prima volta capiamo tutto il dramma di Butterfly e, proprio in quanto “occidentali”, ci sentiamo coinvolti e ne proviamo orrore.
La casa dalle pareti scorrevoli è un cubo di plexiglas dove Lolite asiatiche in minigonna e tacchi alti offrono il corpo al compratore occidentale, in questo caso Pinkerton, simbolo di un consumismo occidentale portato alle estreme conseguenze, che entra in scena su di una macchina bianca accompagnato da altrettanto viscidi intermediari. Capiamo subito che non ci può essere nessun happy end, solo degrado e mortificazione. Facendone una storia di sfruttamento sessuale tutti i personaggi (ad eccezione di Butterfly e Suzuki) sono negativi dal loro prima apparire: Pinkerton, il sensale Goro (una via di mezzo fra un magnaccia e lo spacciatore), la madre di Butterfly che spinge la figlia a mettersi in vendita, il debole e ipocrita Sharpless, come pure la moglie di Pinkerton che compra a poco prezzo un figlio che non poteva avere.
In un contesto dove tutto è commerciale, il matrimonio sbrigativo è una via di mezzo fra uno show televisivo e una promozione turistica, il Giappone della tradizione è uno sfondo di cartone davanti a cui posare per foto discinte, Pinkerton palpeggia le ragazze con la divertita indifferenza di chi paga e non fa mistero di ritenere la sposa un giocattolo sessuale.
Ma purtroppo “Ella ci crede”, come ripete Sharpless, ed è l’unica, malgrado sia attorniata da una società volgare e deteriore, così “stonata” nel lungo vestito da sera turchese, nei modi gentili, nella timida riservatezza orientale, a credere nel valore dell’amore, un amore che assume portata mitica e tocca vertici di assoluta poesia. Lo diceva De Andrè “nel letame nascono i fior”.
I grandi pannelli pubblicitari si scostano per mostrare video che rimandano a un’immagine stereotipata declinata al maschile e femminile: il canto dello yankee vagabondo è commentato da immagini militari di propaganda americana imperialista, mentre quando Butterfly con voce sincopata dice che preferirebbe morire piuttosto che tornare a “divertire la gente” sfilano sullo schermo primi piani di una geisha che si trucca, gesti di per sé meccanici e neutri, ma che nel contesto assumono una portata di tragica predestinazione.
Nel secondo atto vediamo Cio Cio San per quello che è: una bambina con la t-shirt di Hello Kitty che cerca protezione nei peluche sparpagliati nella casetta di plastica e ci colpisce la sua solitudine, mentre sta sul tetto della casetta stringendo fra le braccia un cuscino o quando sembra interrogare la gabbietta degli uccellini per sapere quando in America fanno il nido i pettirossi.
Per la stagione dei fiori Cio Cio San e Suzuki prendono con le mani tempera dai piattini di plastica e colorano le pareti di plexiglas a manate abbozzando forme di fiori o farfalle, per un attimo la tragedia è sospesa in una dimensione ludica , ma poi per sciacquarsi le mani bisogna lavarsi in una sudicia pozzanghera.
Il figlio di Butterfly ricopre un ruolo importante e una delle scene più intense è quando il bambino, a cui come in un sogno le “fate” del coro muto avevano lasciato lumini e origami, gioca con le barchette di carta in una pozzanghera muovendole con un bastone come fossero cigni, ma irrompono bulli-bambini che lo picchiano in quanto “diverso” riducendo il suo sogno a carta straccia.
E non è da meno l’immagine finale con il figlio che si dondola di spalle sull’altalena mentre Butterfly si spara un colpo alla tempia con un’americanissima pistola e arriva Pinkerton che ruba il bambino forzandolo in macchina dove l’aspetta la consorte–complice: turismo sessuale e traffico di bambini sono due facce della stessa medaglia. Fari abbacinanti si accendono dal fondo della scena a marcare la fine della storia, un ulteriore pugno nello stomaco, anche il tempo per la commozione ci viene negato.
L’anno scorso la Cio Cio San di Hui Hue, dai tratti orientali e la voce importante, ci aveva letteralmente commosso; nella ripresa Raffaella Angeletti gioca la carta della sensibilità malinconica e nervosa e convince per il personaggio fragile dai passettini orientali frenati, l’ondeggiare convulso e represso; inoltre, favorita da un fisico longilineo e acerbo, rende evidente come Butterfly sia solo una bambina; il canto è duttile ed espressivo e “un bel di vedremo” incontra pieno favore del pubblico, ma i limiti di estensione non danno pieno risalto alle pagine più drammatiche.
Nel ruolo di Pinkerton Massimiliano Pisapia è perfetto per tenuta vocale e aderenza interpretativa; il canto così sicuro da apparire sfrontato contribuisce a mettere a nudo la superficialità amorale senza attenuanti e ancora una volta si apprezzano la dizione che esalta ogni parola e l’italianità del timbro. Domenico Balzani è uno Sharpless che si distingue per la voce morbida e ben emessa.
Partecipe e sensibile la Suzuki di Giovanna Lanza, fida nutrice depositaria dei “buoni” valori del passato che si prende cura maniacale delle piantine per non vedere il degrado circostante.
Ottimo Gregory Bonfatti nel ruolo di un Goro viscido e insidioso, come pure sgradevole è Yamadori nonostante i luccicanti pacchi dono, ben interpretato da Paolo Maria Orecchia. Luciano Montanaro è lo Zio Bonzo invalido. Personaggio a tutti gli effetti e particolarmente commovente il figlio del piccolo Luca Bosso dalle capacità attoriali già “adulte”. Anche la Kate Pinkerton di Ivana Cravero non si dimentica in fretta e contribuisce con la sua presenza a rendere l’atmosfera sgradevole e a prefigurare un destino di dolore per il bambino: tacchi alti, giacca leopardata, chignon impeccabile è il clichè della matrigna bella e anaffettiva con l’aggravante dell’avidità.
Il giovanissimo Daniele Rustioni offre una lettura piena di pathos, ricca di chiaroscuri e di accensioni espressive. In sintonia con l’impostazione registica la direzione anticalligrafica privilegia al gioco di nuances la componente emotiva e, se pur un po’ troppo incline al forte, ha indubbia tensione drammatica. Puntuale come sempre il coro del Regio preparato da Claudio Fenoglio.
Teatro quasi esaurito per uno spettacolo che può dividere, ma non si dimentica.