In chiusura di stagione il Carlo Felice presenta la Butterfly nel fortunato allestimento scenico di Beni Montresor del 1996, riproposto anche nel 2006 con regia di Renata Scotto e ora ripreso dal giovane regista spagnolo Ignacio Garcia. Rivedendolo a distanza di tempo, se ne apprezza l’essenzialità scenica, “giapponese” e universale come la tragedia d’amore di Butterfly, che spazza via ogni residuo da Giappone da cartolina - ponticelli peschi in fiore o atteggiamenti leziosi – per conseguire una stilizzazione scenica dove la casetta di legno e carta dalla pura geometria e minimali elementi d’arredo sembrano galleggiare nella scena vuota che si apre verso l’orizzonte infinito delimitata da quinte a specchio che ne aumentano l’estensione.
Il variare delle luci sullo sfondo scandisce la tragedia, declinandosi nei vari toni dell’azzurro, da lavanda cinerei a blu notturni, accendendosi di rosso nei momenti drammatici (l’entrata in scena dello zio bonzo per rinnegarla o nella morte finale) e di fucsia per l’amore. Un telo bianco cala dall’alto, vela che ondeggia alla marina brezza e delimita lo spazio privato, paravento dietro cui Butterfly con uguale pudore si prepara al rito nuziale o a compiere quello funebre. Sul velo viene proiettato il testo in inglese della lettera di Pinkerton, scritto indecifrabile che Butterfly stringe fra le mani e scruta in modo ossessivo nella lunga veglia e che tornerà simbolicamente alla fine nelle pagine bianche portate sulla scena dal vento come foglie morte.
Se l’intensità vocale e interpretativa dei protagonisti è tale da creare personaggi a tutto tondo, i ruoli secondari rimangono figure di contorno piuttosto sbiadite e anche le masse timidamente addossate alle pareti del teatro si limitano a piacevoli tocchi di colore pastello rosa e arancione.
Hui He è una Cio-Cio-San ideale, non solo per i tratti (e modi) orientali che conferiscono maggiore verità al personaggio; la sua Butterfly già segnata dall’amarezza del vivere reca in sé fin dall’inizio il dramma, nessuna leziosità infantile quanto naturale riserbo e orientale sottomissione in una progressione tragica lucida e dolorosa. La voce lirica di volume importante si piega con tecnica duttile a ripiegamenti interiori e smorzature per poi scattare in acuti saldi e luminosi. Un’esecuzione in crescendo ricca d’accento che ha conquistato il pubblico genovese che le ha tributato un’ovazione al termine di “Un bel dì vedremo”.
Anche Massimiliano Pisapia è un ottimo Pinkerton, seduttore superficiale e irresponsabile, ma mai cattivo. La voce luminosa è adatta al canto amoroso di cui ben rispetta le indicazioni di pianissimo e dolcezza e la limpida dizione esalta il canto di conversazione. Impeto passionale e acuti vigorosi ben risolvono il duetto del primo atto e un “Addio mio fiorito asil “ che strappa l’applauso.
Bene George Petean, uno Sharpless dalla voce baritonale piena e fraseggio curato, ma scenicamente piuttosto compassato. Elena Cassian è una Suzuki intensa e partecipe, di cui è sottolineato il legame forte con la protagonista. Si apprezza del Goro di Mario Bolognesi la recitazione sorvegliata e il rigore vocale.
Lo Zio Bonzo ha i tratti orientali di Seung Pil Choi, Armando Gabba dà voce a uno Yamadori giovane e sensibile ed al Commissario Imperiale, Sara Cappellini Maggiore è una Kate Pinkerton che ha la delicata bellezza di una bambola di porcellana.
Attenta ed equilibrata la direzione di Stefano Ranzani nel cogliere le diverse tinte e spessori della partitura senza mai prevaricare il canto: coerenza espressiva e capacità narrativa rendono la vicenda viva e pulsante con buoni chiaroscuri. Bene il coro preparato da Marcovalerio Marletta.
Un teatro quasi esaurito e decisamente partecipe ha tributato pieno consenso allo spettacolo.