Di rado ci capita di intenerirci così tanto, come accade di fronte a questa bella Madama Butterfly propostoci dal Teatro Filarmonico di Verona. Colpa e merito di un'interprete adeguata e partecipe come Yasko Sato
Va bene, magari c'entrano quelle linee di febbre che abbiamo in corpo, maligno frutto di stagione. Però di rado ci capita di intenerirci così tanto, come accade di fronte a questa bella Madama Butterfly propostoci dal Teatro Filarmonico di Verona. Colpa, o merito che sia, di un'interprete adeguata e partecipe quale si è dimostrata Yasko Sato, e di una messa in scena – quella di Andrea Cigni – rarefatta nei gesti eppure comunque intensissima, nell'ambito di un accurato progetto visuale che porta avanti l'azione con sottile equilibrio, e sapienti e leggeri tocchi registici. Pochi, tutto sommato, ma tutti espressivi e pregnanti, capaci nel secondo e terzo atto - separati dal sogno di Cio Cio San di riabbracciare l'amato, proiettato al suono del coro muto - di indurre un'irrefrenabile commozione.
Ma indubbiamente non meno contava la magnifica guida musicale di Francesco Omassini, in grado di indagare le mille sfumature melodiche, timbriche e cromatiche di questa partitura. Concertazione sapiente e direzione ideale: mai fuori misura, mai troppo languida, mai smodatamente voluttuosa, ovunque ricercatissima eppure piena di slancio sentimentale. E ci pare, anche per questo, di avere trovato l'Orchestra ed il Coro areniani in stato di grazia.
Un meccanismo ben oliato
Anche sul palcoscenico ognuno si comporta al meglio delle proprie possibilità. Yasko Sato, come anticipato, è una Butterfly trepidante ed umanissima: fraseggiatrice elegante, ammirevole nella tenuta vocale benché gli acuti non siano sempre eclatanti, non è mai plateale nel gesto né nel canto. Magistrale nel canto discorsivo, riesce a toccare tutte le nostre corde emozionali con la drammatica immersione in una Cio Cio San – ruolo che la vide vincere il Concorso Toti Dal Monte 2011 - che se non è perfetta, ci va assai vicino. Della brava Manuela Custer, apprezziamo come ne puntella ogni passo esprimendosi in una toccante Suzuky.
Il tenore ucraino Valentyn Ditiuk tiene in piedi molto bene il personaggio irresponsabile e pasticcione di Pinkerton, con piglio vocale irruento. Forse più generoso e lanciato, che rifinito sino in fondo; ma a noi questo basta ed avanza. Mario Cassi presidia con sicurezza uno Sharpless dal timbro pieno e pastoso, sobrio scenicamente, vocalmente raffinato come pochi. Quanto a Marcello Nardis, lo vediamo destreggiarsi abilmente nelle ruffianerie melliflue di Goro. Ben amministrate anche le altre parti di fianco, fra le quali spiccano lo Yamadori di Nicolò Rigano e lo Zio Bonzo di Cristian Saitta.
In viaggio dall'Est
Lo spettacolo arriva dal Teatro Nazionale di Zagabria, che l'ha coprodotto con la Fondazione Arena. Dietro il sipario Dario Gessati descrive un bosco di alte betulle, sempre mutevole, in cui appare e dispare – spinto da muti spettri senza volto, gli stessi che intrattengono il bimbo mentre la madre dorme sfinita – anche il piccolo fiorito asil.
E' un bosco dall'aspetto fiabesco, in cui volteggiano sino al suolo mille foglie appassite, ad esprimere che – a dispetto delle primavere evocate dai versi – nel cuore della fanciulla sta per scendere inesorabilmente il gelo dell'inverno e della morte. Valeria Donata Bettella ci porta ai giorni nostri, mischiando capi tradizionali giapponesi e moderni abiti occidentali. Non solo per l'ufficiale ed il console, ma anche per la piccola folla delle nozze - tutti a far foto coi cellulari - dove spiccano pure invitati non giapponesi: signori in giacca e cravatta, signore in tailleur e borsetta al braccio. Ed al piccolo iddio mette addosso una chiassosa t-shirt con il logo di Superman. Per le belle luci siamo debitori a Paolo Mazzon.