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A MAGGIOR GLORIA DI DIO

LUMEN E GRAVITAS DELLA GLORIA

LUMEN E GRAVITAS DELLA GLORIA

Massimo Cacciari ha premesso di non essere in grado di introdurre il tema del festival (“A maggior gloria di Dio”) riguardo opere e musica, non essendo egli un musicologo, ma vuole parlare in generale del tema: una conversazione teologico-filosofica sulla gloria di Dio o sulla gloria a Dio. L'etimo del termine gloria non è perspicuo, forse la radice è la stessa di clarus, quindi una idea di luminosità. Per Agostino la gloria è una notizia assolutamente luminosa e degna di lode riguardo al bene o alla bontà di qualcuno. L'idea di lode è tale per cui colui che ha gloria viene lodato, non in senso sentimentale, ma in quanto buono, capace, forte, in grado di manifestarsi con efficacia. Il fatto è necessario: è la necessità di manifestarsi all'esterno di ciò che è degno di lode e di bene massimamente, perchè è superiore ai nostri limiti umani, li supera tutti. Ne deriva un problema teologico fondamentale: che cosa si manifesta di questo sublime, di questo qualcuno che è massimamente buono? Che cosa del Dio nascosto risplende all'esterno?
Sono necessarie alcune precisazioni filologiche. Kavòd (gloria), il “manifestarsi” in ebraico, viene tradotto nella Septuaginta (la versione greca dall'ebraico del vecchio Testamento, realizzata da settanta saggi forse ad Alessandria d'Egitto ed ancora oggi adottata nelle liturgie delle chiese ortodosse greche) con δόξα. Ma kavòd deriva dalla radice ebraica di peso, gravitas in latino: gloria come idea di potenza “pesante” (invece il termine greco δόξα significa altro, cioè sembrare, apparire, credere, opinare ma con valore negativo, indicando l'opinione di coloro che non sanno, l'opinione opposta alla scienza, all'επιστήμη, di coloro che non arriveranno alla verità). Un caso emblematico di metamorfosi delle parole. Così δόξα rimane nel linguaggio veterotestamentario come il “manifestarsi all'esterno della potenza del Signore”, del deus absconditus.
Ma la questione è: come si rappresenta il deus absconditus? Come si manifesta il Glorioso nascosto? Ciò pare un paradosso. Il manifestarsi di Dio implica il non rivelarsi mai completo della sua essenza. Mosè gli chiede “mostrami la tua δόξα” e Dio gli risponde “ti metterò di fronte alla mia bontà” e copre il volto di Mosè quando mostra la sua δόξα, costantemente affermata ma solo in quanto distante al nostro sguardo. La δόξα θεου è di-stanza presso Mosè e il popolo di Israele e tuttavia è, al tempo stesso, distante e differente da loro (per quanto e nonostante dimori presso di loro).
Quindi noi abbiamo la visione solo dell'ειδος della δόξα θεου, cioè della forma, dell'immagine, mai della δόξα in quanto tale, intesa come immediata espressione del Signore (cioè senza mediazioni). Ad esempio Ezechiele vede la gloria del Signore, ma non la δόξα in quanto tale, bensì la visione dell'immagine della δόξα θεου, cioè l'ειδος. Il Signore abita con noi, ci accompagna, ma la sua δόξα non ci è mai immediatamente visibile. Il rapporto implica e genera una tensione costante: da un lato il desiderio ardente, insopprimibile che il fedele ha di vedere, dall'altro il mantenimento costante della differenza tra ciò che noi vediamo (ciò che a noi si manifesta) e la δόξα stessa, per cui è costantemente ribadita la inaccessibilità di una visione diretta. Quel che conta è la tensione, la differenza: ciò che si manifesta non è mai l'essenza di chi si manifesta. Il concetto è tipico anche della mistica ebraica: la visione faccia a faccia è solo un'idea escatologica, finale.
E allora come possiamo immaginare questa gloria? Cosa può essere l'ειδος, la forma che più si approssima all'idea di gloria? L'ente che più si avvicina, che più può essere immagine di questa sublimità e della δόξα θεου, è la luce. Luce non tanto intesa come sole, corpo determinato e definito, ma quell'idea del sole che è luce. La δόξα θεου diviene così una teofania luminosa, la claritas di Tommaso, per il quale il bello è essenzialmente claritas.
Il soggetto nella luce tende ad annullarsi, perchè ogni distinzione tende a scomparire e così la luce diviene tenebre (ci sono testimonianze numerose in tal senso nella mistica ebraico-cristiana). È questo il grande pericolo: che coincidano luce e tenebre, dove ogni ente è niente.
Ma in Dante non è così: l'estrema luce fa splendere la creatura in tutta la sua energia (non annichilisce tutto in sé, bensì fa esaltare le distinzioni). Per Dante la luce è l'ειδος per eccellenza della δόξα θεου, ma non è la stessa cosa in tante tradizioni mistiche, come già detto. Per Dante quella è la luce che viene cantata dagli angeli e che innamora: i corpi stessi si faranno gloriosi nel momento della resurrezione, i corpi non saranno annullati dalla luce ma saranno da essa illuminati, fatti splendenti. Quindi il vi-andante, il viaggiatore in viaggio verso la luce, è partecipe della luce, una luce effusiva di sé per far risplendere i corpi, quei corpi che rappresentano la dimensione creaturale per eccellenza.
Il termine δόξα è presente anche nel nuovo Testamento ed è importante, ma in modo diverso. Qui la δόξα θεου “esce allo scoperto”, si manifesta realmente non attraverso l'ειδος, ma è un'epifania vera e propria, la manifestazione piena del Dio veterotestamentario. Il Figlio è la gloria del Padre, il Figlio è l'apocalisse della gloria. Il Figlio è la gloria, non l'immagine del Padre; e il Figlio è gloria ora, non in qualche lontano έσχατον: chi vede il Figlio, vede la gloria. L'antica δόξα θεου si manifesta pienamente sulla croce (come documenta la testimonianza del centurione): il Signore nascosto si manifesta pienamente nella figura che apparentemente sembra opporvisi, tramite l'uomo martire che muore in croce. Quell'uomo diventa gloria e avrà vita eterna: è autentica epifania, che si realizza pienamente e compiutamente solo nell'ora della passione. È evidente che siamo agli antipodi dell'idea di luce e di splendore. Allora come fa l'uomo a vedere la δόξα θεου in quel corpo martoriato e nella passione? È un “dramma teologico”, uguale al nostro fare arte: bisogna comprendere teologicamente per capirne il peso. E la risposta è semplice: solo chi crede ha questo occhio, questa capacità di vedere nella croce la gloria di Dio, la δόξα θεου. Questa è la risposta della fede.
Ma qual è la risposta delle manifestazioni artistiche? In Dante la somma luce che piove dal cielo (luogo dove essa impera) è buona ed effusiva di sé perchè fa risplendere ogni creatura. Il radius colpisce l'ente che ri-splende grazie all'irradiarsi del lumen che deriva dalla luce (da ricordare però che in Dante non c'è la passione se non quella delle creature). Una mancanza, nelle rappresentazioni dell'Europa occidentale, è alla base delle arti, perchè la mancanza è sempre in metamorfosi, volendo mostrare un fine inattingibile: vedere la δόξα θεου nella passione del Figlio. E non solo nel vedere la creatura che, colpita dal radius, anela a tornare alla luce. Vedere la luce nella notte oscura è il fine della nostra rappresentazione artistica: vedere il tormento delle creature senza perdere di vista la gloria di Dio.

Visto il
al Lauro Rossi di Macerata (MC)