"Mamma - Piccole tragedie minimali" è uno degli ultimissimi scritti di Annibale Ruccello, rappresentato dallo stesso autore al Festival di Montalcino nel 1986: quattro brevi atti unici nei quali il tema così ruccelliano della fiaba è ancora presente e completamente protagonista soltanto nel primo episodio (“Le fiabe”, appunto) ed ancora un po' nel secondo (“Maria di Carmela”), pur se in maniera quasi strisciante e soprattutto per il ritmo e la musicalità della forma in filastrocca.
Annibale Ruccello trascorse la sua breve vita in un momento storico in cui era alquanto elevata l'attenzione di varie arti verso le vicende popolari, e contemporaneamente cominciava a consumarsi la loro perdita di identità storica e culturale a causa prima delle influenze consumistiche del post-dopoguerra, e poi del sopravvento della tecnologia che stava per sfociare nelle prime tendenze globalizzatrici.
Era un mondo popolare che conosceva bene, anche come studioso delle tradizioni e soprattutto dell'antropologia, nel periodo in cui era cosa giusta leggere i saggi di Ernesto De Martino e di Levi Strauss; ne venne fuori un interesse per le classi subalterne che produsse testi, come anche questo, nei quali i suoi eroi appartengono ad una umanità ambigua, ambivalente, sporca e, per certi versi, appunto, eroica.
La dimensione serve alla regia di Giusy Crescenzo per creare la possibilità quasi di partecipare al vissuto soggettivo dei protagonisti, attraverso una disposizione scenica che rende gli spettatori come una parte avvolgente, rispetto alle tre attrici (Fabiana Fazio, Valeria Frallicciardi ed Alessandra Mirra), abili a mantenere la sincronia precisa voluta dalla scelta di rendere molto spesso i monologhi come una voce una e trina, o spezzata appunto nei tre diversi toni; questo è stato sicuramente l'effetto più originale e riuscito, che ha permesso anche di aprire un ventaglio più ampio su personaggi grotteschi o mostruosi, quasi promotori o portatori sani di incubi, spesso patetici, ma mai impetranti pietà.
Le storie, dunque: ne “Le fiabe”, una mamma narra la storia di Catarinella, Miezuculillo e del Re dei piriti. Con un secchio per lavare in terra nelle mani, imitano ognuno dei personaggi della storia familiare raccontata (Ce stava 'na vota... 'nu pate e 'na mamma e ddoie figlie... una se chiamava Rosetta e ll'ata... cchiù grossa... se chiamava Catarinella), ed all'interno della storia prende corpo anche una filastrocca vera (Catarinella sì... Catarinella sò...) ed una nenia (Papà papà papà... tieneme astritto e nun me lassà...), prima dell'apparizione di un padrone di casa orribile (Miezuculillo, il cui destino di coprofago tralasceremo...) che ricorda forse una fiaba di Basile, quella in cui la ragazza mangia gli gnocchi destinati al padrone e viene arrestata, salvo lieto fine tra lei ed il principe, mentre qui, come in ogni finale di Ruccello, non manca il dramma.
“Maria di Carmelo”: vita quotidiana di una donna ospite di un manicomio perchè convinta di essere la Madonna, reso con la tesa ruvidità e scabrezza dei suoi deliri antichi e post-moderni insieme, ed un degradato rapporto con le suore.
“Mal di denti”, tratto da “Notturno di donne con ospiti”, ovvero una mamma che nella sofferenza temporanea del mal di denti, nel giorno di Venerdì santo, scopre che la figlia Adriana è incinta; le sue considerazioni spaziano dal senso comune di vergogna/rabbia al rifiuto del pensiero di scendere di un gradino sociale (!) imparentandosi con il figlio di un operaio, fino alla tragedia del suicidio della ragazza.
“La telefonata”, un'unica, lunga e concettualmente infinita telefonata della mamma di Forcella che nel preoccuparsi dei massimi sistemi dell'umanità ovvero telenovelas, grandi fratelli ed altre estreme ed allucinanti presenze televisive oggi pervasive, contemporaneamente bada ai suoi figli e nipoti, cui con afflato terzomondista sono stati imposti nomi come Veruska, Morgana, Ursula e Isaura, in una simbolica e gobale perdita della tradizione, e di corruzione sotto la potente ala delle moderne, peggiori liturgie di massa. Con terremoto finale.
Per la scelta di triplice e contemporanea narrazione, però, e grazie forse proprio alla precisione delle cadenze interpretate dalle tre attrici, a volte sembra sia andato perso molto del lato tragico (fino a dissiparsi del tutto nella istantaneità di momenti come il suicidio di Adriana ed il terremoto finale), come se per dipingere sui volti la fabula ed a volte l'affabulazione, si fosse rinunciato ad un certo grado di pathos realistico; l'agire sul lato farsesco, insomma, o perfino ambiguo, anche attraverso il voluto accento maschile/femminile, sbilancia a volte i personaggi tragi-comici sul loro lato meno greve dei propri deliri verbali alterati geneticamente.
Efficace però è il distacco ancor più marcato fra il legame con la tradizione orale della favola di apertura, che ricorda e rende bene l'abilità di Ruccello nel genere (aveva anche collaborato con De Simone alla raccolta delle “favole napoletane”) e l'insopportabile livello di infima modernità soprattutto dell'ultimo racconto, per una messa in scena complessiva in grado di far toccare quasi fisicamente agli spettatori prima un lirismo del disagio, poi una ineluttabilità del presente.