Venezia, teatro La Fenice, “Manon Lescaut” di Giacomo Puccini
MANON INCATENATA ALL'ALTALENA
Venezia è città unica ed irripetibile, che vive di un passato ineguagliabile, anzi, che vive del malinconico tramonto di quel passato. Sarebbe logico pensare che il massimo teatro cittadino si adagiasse su quel languore, proponendo allestimenti tradizionali e “imparruccati”. Così non è, anzi, l'esatto contrario. La Fenice si segnala fra i teatri lirici: dalla commissione di nuove opere all'importare dall'estero allestimenti modernissimi fino alla scelta coraggiosa ed encomiabile di inaugurare la stagione con spettacoli di certo non tradizionali: come la Manon Lescaut che ha aperto la stagione 2010 nel triste anniversario del rogo del 1996, il 29 gennaio.
Graham Vick realizza uno spettacolo talmente potente ed efficace che ogni atto ha personalità, atmosfera e caratteristiche da renderlo un'opera in sé, come se il succedersi dei quattro atti fosse la presentazione di quattro opere distinte, quattro capitoli della storia. Questo è possibile grazie alle scene geniali di Andrew Hays e Kimm Novac, autori anche dei costumi perfetti.
Il palcoscenico è foderato da tre alte pareti bianche, al centro una pedana sospesa su uno scavo nella terra nuda che si intuisce nella parte sottostante: il sottosuolo. Il primo atto è ambientato in una scuola, ma presto scivola in un luna park. Il secondo atto è nella stessa scena ma il gioco di quinte che si restringono sull'immagine finale di una donna nuda e lasciva lo rendono completamente differente. Lunghissimo l'intervallo, quasi un'ora per consentire una trasformazione radicale della scena. Infatti nel terzo atto le pareti si sono sollevate e ora lo scavo di terra occupa la metà in altezza della scena. La pedana sospesa è collegata da due passerelle di nave alle uscite sul fondo e sulla sinistra. Nel quarto atto la pedana si alza e si ribalta, diventando soffitto, e i protagonisti sono a terra, dentro lo scavo, senza possibilità di uscita.
La regia, una delle più significative di Vick, presenta immagini fortissime e una lettura che rimane fedele al libretto, evidenziandone con lucidità l'attualità. Via le parrucche, via il Settecento di casa a Venezia. La rappresentazione affonda in un presente guardato con spietato e crudo realismo, che colpisce nel profondo. Nel primo atto l'atmosfera fra gli studenti è quella dello scherzo e della goliardia, volano aeroplanini di carta, si scarabocchia coi gessetti la lavagna sospesa a un argano industriale. Poi il luna park, dominato da grandi cigni che attraversano la scena sospesi a una trave metallica con dentro coppie di innamorati. Per giustificare il cocchio di Arras una carrozza viene disegnata coi gessetti alla lavagna. Un grande orsacchiotto rosa, vinto con gioco delle palle lanciate nella bocche di grandi teste, è il simbolo dell'amore acerbo, ma sincero e travolgente dei due protagonisti, che scappano su un cigno. Il mondo dell'infanzia, dei giocattoli, dei giochi spensierati, degli scherzi innocenti. Una gioventù irridente e irriverente, scanzonata, che fa da sfondo all'emergere della sensualità di Manon, seppure castigata nella divisa scolastica, accesa al primo sguardo da un'attrazione irresistibile verso Des Grieux.
Il secondo atto si apre con Manon che si sta facendo tatuare una caviglia, anziché incipriare e sistemare il ricciolo. Da subito folate di sensualità, una sensualità malata e drogata che vira verso la concupiscenza: sempre e solo esteriorità vuota e fasulla. Lescaut, prima in divisa e kepì, è ora un magnaccia senza scrupoli, vestito con completo bianco sopra maglietta nera con vistosa griffe in pagliette: gli avambracci sono nudi, svelati dalla giacca con le maniche rozzamente sollevate. Il madrigale viene eseguito con grande ironia da cinque musici i cui volti emergono al posto delle facce di un dipinto con viziosi putti. L'insegnante di danza non avrebbe avuto senso in questa storia. Manon è stordita dalla nuova vita, completamente affascinata dalla ricchezza: ecco quindi un fotografo che la immortala in ritratti seducenti (anche se il libretto in questo caso non collima fino in fondo, nonostante gli sforzi del regista). La festa è improntata a un'eleganza fredda e formale, ci sono tossicodipendenti. Geronte regala una bianca pelliccia a Manon, rendendola felice. Ma nel finale d'atto le strappa la pelliccia di dosso per donarla a una timida, minuta, ossuta, giovane studentessa. Durante il duetto Manon-Des Grieux ombre si allungano sulle pareti, scende un'altalena che da oggetto di svago diviene prigione: Manon viene incatenata all'altalena e sollevata da terra come una bambola ormai priva di vita.
Il terzo atto è fortissimo: la scena si è “alzata”, rivelando le viscere della terra. Manon è sospesa sull'altalena, altre ragazze pendono dall'alto ingabbiate in strutture da cui spuntano le gambe nude a penzoloni, prolungate da vertiginosi tacchi a spillo. Gabbie che non sono altro che le intelaiature delle gonne rigide del Settecento. Al momento dell'appello, le ragazze vengono fatte scendere sulla pedana e le gabbie tornano ad essere gonne di rigidi cerchi di ferro che, muovendosi, emanano fragore metallico. La pedana è sospesa fra due passerelle, a evocare la partenza in nave. Il carico delle ragazze avviene come se fossero bestie da macello, esseri umani in una tratta che di umano non ha nulla. Manon è pallida, il trucco sfatto, il vestito impolverato, i capelli stopposi e opachi. Al momento della partenza per il Nuovo Mondo gli studenti lanciano stelle filanti, mentre coriandoli colorati scendono dall'alto a pioggia, rendendo tutto ancora più grottesco e doloroso: Manon e Des Grieux sono isolati, soli sulla pedana dove hanno ritirato le passerelle, completamente soli.
Soli li ritroviamo nel quarto atto, sotto la pedana, per terra, abbandonati. Increduli, si sollevano da terra e si guardano intorno, come appena svegli da un brutto sogno, come precipitati da un altro pianeta, da un'altra vita. Senza possibilità di uscire da quello scavo nelle viscere della terra. Des Grieux ci prova, ma finisce per scivolare giù. Il sole è quattro fari industriali giallastri appesi sotto la pedana-soffitto. Manon appare ancora più incongrua con quel vestito lungo e scollato, non c'è niente di più estraneo. E di più straziante. Essi sono soli, anche se sei comparse li guardano dall'alto, sei studenti che, uno dopo l'altro, sfilano via dietro le quinte. Li guardano dall'alto, immobili, come sull'orlo dell'abisso: nella vita basta un attimo, un cedimento della volontà, un obnubilarsi della ragione per precipitare senza potere più rialzarsi, senza potere più uscire. Un errore si paga per sempre. Nel caso di Manon il desiderio di lusso e di ricchezza non guadagnata con il lavoro. O piuttosto la necessità, pur vitale, di uscire da una situazione contingente non scelta in nome dell'amore. E non basta a salvarla il fatto che fin dall'inizio si veda il profilo di quel buco nella terra dove tutto finirà, con tutta la storia che si svolge sopra, su quella tavola precaria che è sempre in procinto di far precipitare nel buco chi sta sopra.
Renato Palumbo dirige ottimamente la partitura; il suono è nitido, pieno, flessibile; le scene di colore dei primi due atti sono impeccabili dal punto di vista musicale e non calligrafiche, adattandosi perfettamente alla regia. La cifra che domina la partitura è un amore totale, fisico, che annulla tutto il resto e che l'orchestra rende con morbidezza e verità.
Martina Serafin è una Manon alta, di grande bellezza opulenta e morbida, perfetta nel passare dalla ragazzina con le trecce sul petto e la gonna a cannelli del primo atto alla vamp lussuriosa e bramosa di denaro del secondo, con la generosa scollatura e la chioma sciolta voluttuosamente a nascondere-rivelare il decolleté. Perfetta fisicamente per il ruolo, vocalmente è altrettanto imponente. La voce è bella nel timbro, solida nella linea di canto per reggere senza difficoltà una tessitura difficile come questa; salda e potente, luminosissima la centro e con una sicurezza unica nella salita verso l'alto (e sappiamo quanto spesso Manon debba salire) dove resta corposa e calda.
Accanto a lei Walter Fraccaro appare corretto, benchè privo di colori ed accenti capaci di rendere le sfumature di Des Grieux; la voce è salda e tecnicamente in grado di affrontare con onore il ruolo arduo, a volte risolto con un volume da contenere.
Dimitris Tiliakos è un ottimo, non convenzionale Lescaut. Anche Alessandro Guerzoni è un ottimo Geronte, che evita la macchietta per rendere un uomo agée antipatico che concupisce giovanissime, in un certo modo sfruttandole fino a trasformare loro la vita in modo irrimediabile. Saverio Fiore (anche nel ruolo di un lampionaio) risolve nel modo proprio il ruolo di Edmondo ed affronta con sicurezza la romanza, il momento che maggiormente contrasta con il canto invece di conversazione di Geronte e Lescaut. Perfetta nel madrigale Anna Malavasi con Nicoletta Andeliero, Emanuela Conti, Gabriella Pellos e Francesca Poropat. Con loro Gionata Marton (l'oste), Stefano Consolini (il maestro di ballo, invero qui il fotografo), Carlo Agostini (il sergente degli arcieri) e Salvatore Giacalone (il comandante di marina). Ottimo il coro preparato da Claudio Marino Moretti, impegnato anche in una difficile prova attoriale.
Teatro gremito, pubblico critico durante l'intervallo, disorientato dalle scelte registiche: forse si poteva inserire nel programma di sala qualche riga con le note di regia oppure un articolo che aiutasse il pubblico a “entrare” nello spettacolo. Il programma, peraltro sempre coltissimo, si apre con una spassosa vignetta di Pat Carra “Sono Manon Lescaut. Nel 2000 sarò Manon l'Escort”. Alla fine applausi.
Visto a Venezia, teatro La Fenice, il 31 gennaio 2010
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
La Fenice
di Venezia
(VE)